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La caccia alle colpe di Harvard nell’aggressione agli ebrei. Ma in Italia nessun campanello d’allarme
Uno studente dell’Università di Harvard (Alexander Kestenbaum) e un’associazione studentesca (Students Against Antisemitism) mesi fa muovevano causa all’Università di Harvard deducendo che l’istituto si sarebbe reso responsabile di gravi violazioni dei propri doveri, in particolare per aver lasciato che si consumassero nell’impunità casi di aggressione antisemita e pratiche di intimidazione e discriminatorie nei confronti degli studenti ebrei. Harvard, per intendersi, era quella presieduta dalla signora che, richiesta di dire se inneggiare al genocidio degli ebrei dovesse considerarsi contrario al codice di condotta dell’università, rispondeva che “it depends on the context” (dipende dal contesto). Nel difendersi davanti alla Corte distrettuale del Massachusetts, investita del caso sottoposto da quello studente, Harvard ricorreva a ogni argomento reperibile affinché fosse archiviato tutto.
Le colpe di Harvard
Senonché, con una decisione di qualche giorno fa, il giudice di quella Corte distrettuale, Richard G. Stearns, riteneva al contrario che una buona quota delle allegazioni di Kestenbaum fossero supportate da solidi argomenti. E che a carico di Harvard fossero sussistenti non improbabili ragioni di responsabilità. Tanto, appunto, da giustificare la prosecuzione degli accertamenti processuali. In venticinque pagine di decisione sono elencate le colpe di Harvard, i cui responsabili rimanevano inerti mentre nel campus gli studenti ebrei erano aggrediti e molestati, erano vandalizzati i poster in memoria degli israeliani rapiti da Hamas e le squadracce pro-pal occupavano e devastavano gli spazi comunitari inneggiando alla “globalizzazione dell’Intifada”. Harvard, nelle difese, arrivava persino a esercitarsi nell’appiglio al Primo Emendamento (insomma la tutela della libertà di opinione) per giustificare le proprie omissioni, beccandosi l’impietosa osservazione del giudice secondo cui è almeno dubbio che, per fatti simili, ci si possa “nascondere” dietro a quella norma.
La risposta contraddittoria
E così, dopo aver accantonato quelle pretese assolutorie, il giudice riteneva che la risposta di Harvard, in quel clima da caccia all’ebreo e filoterrorista, fosse “nel migliore dei casi indecisa, vacillante e a volte internamente contraddittoria”. Contraddittoria nel senso che – come spesso succede, e come appunto è successo a Harvard – il routinario e puramente teorico ripudio del pregiudizio discriminatorio va di conserva con la pratica che quel pregiudizio, di fatto, lascia correre impunito. Suona forse un campanello presso qualche rettorato o senato accademico della Repubblica democratica fondata sull’antifascismo?
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