Matteo Salvini ha fatto due conti e ha scelto, seguendo una strategia abbastanza chiara e ovvia, di non candidarsi alle prossime elezioni europee. Dopo quattro candidature di fila, le prime due nel 2004 e nel 2009 alle spalle di Umberto Bossi, le ultime nel 2014 e nel 2019 da capolista in tutte le cinque circoscrizioni, questa volta ha deciso di passar la mano. Il nome del leader leghista non sarà tra quelli dei 720 eurodeputati che siederanno nei banchi della decima legislatura, che si aprirà ufficialmente il prossimo 16 luglio.

Le ragioni della strategia salviniana sono molteplici e tra queste, come hanno ripetuto i più perfidi, c’è forse quella di tenere a debita distanza dalla sua segreteria l’inevitabile caccia alle responsabilità che si aprirà un secondo dopo l’annuncio dei risultati elettorali. Ciò perché, volendo dar credito alle previsioni e ai sondaggi della vigilia questi saranno di certo brillanti, soprattutto quando messi a confronto con quelli debordanti del 2019, allorché la Lega raccolse a livello nazionale il 34,33%.
Il punto è che a prescindere da un impegno in prima persona in questa campagna elettorale, l’esito delle urne, qualunque esso sia va sottolineato, ricadrà comunque sulle sue spalle, non foss’altro perché la curvatura leaderistica della politica contemporanea non prevede una deresponsabilizzazione. Il leader non ha in tal senso, vie di fuga legittime, è il terminale unico e solo, nel bene e nel male, di tutto ciò che riguarda il partito.

Pertanto, candidato o meno, a Matteo Salvini saranno addossate tutte le responsabilità dei risultati ottenuti dalle liste: quelle dirette e indirette, quelle presunte e quelle più vere, quelle proprie o di terzi. Il leader politico si conferma credibile agli occhi, e nel percepito, dei cittadini che si trasformano in elettori, ogni qualvolta non fugge dalla battaglia, allorquando plasticamente, a questo serve per l’appunto la candidatura, si fa carico della responsabilità alta di guidare l’esercito dei follower sulla linea del fronte. La metafora bellica, visti i tempi che viviamo, forse non è tra le più felici ma rende perfettamente lo scenario che ha di fronte a sé Matteo Salvini.

La candidatura del leader adempie a due esigenze di fondo: la prima investe la consistenza della reputazione. Infatti, risponde alla necessità di trasferire a chi lo guarda e a coloro ai quali chiede una partecipazione, il senso autentico dell’orgoglio di un’appartenenza, a un’idea, a un progetto e a una visione, così come testimonia il coraggio intrinseco alla leadership.
La seconda, non meno importante, riguarda il valore di un brand politico e della sua capacità di comunicazione. Un valore che può essere misurato proprio dall’ampiezza del consenso elettorale e che, al contrario di quanto si è portati a pensare, non deve essere temuto, né evitato. Nelle democrazie digitali, i leader possono misurare il loro reale gradimento per le scelte politiche o di governo, solo attraverso il travaglio dell’urna. È in quel parto che una leadership può avere contezza dei propri errori o, viceversa, del gradimento per delle scelte fatte. Ma, di più, nella candidatura c’è anche una qualità altra, potremmo dire, di meta comunicazione, perché con essa testimonia e rinnova la sua centralità, l’ineluttabilità e l’indispensabilità quali caratteristiche ontologiche della leadership.
Ecco perché Matteo Salvini forse farebbe bene a ripensarci e candidarsi per la quinta volta.

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Domenico Giordano è spin doctor per Arcadia, agenzia di comunicazione di cui è anche amministratore. Collabora con diverse testate giornalistiche sempre sui temi della comunicazione politica e delle analisi degli insight dei social e della rete. È socio dell’Associazione Italiana di Comunicazione Politica. Quest'anno ha pubblicato "La Regina della Rete, le origini del successo digitale di Giorgia Meloni (Graus Edizioni 2023).