La paura, o meglio, la quasi certezza di perdere la battaglia referendaria dovrebbe suggerire alla magistratura italiana nuove vie e nuove strategie, dovrebbe aiutarla a ripensarsi, a rimeditare il proprio ruolo in una società che ha un bisogno estremo di governare conflitti e mitigare le ingiustizie. La difesa dello status quo è oggettivamente insostenibile e l’idea che qualche pannicello caldo, travestito da riforma, possa servire allo scopo di portare a casa la pelle per l’ennesima volta pare destinata a infrangersi contro gli scogli schiumeggianti di una pubblica opinione in subbuglio.

Tra libri, dichiarazioni, faide, spiate, dossier, corvi e sciacalli si è perso di vista che a crocifiggere la credibilità della magistratura italiana in verità sia stata innanzitutto l’Europa che, a chiare lettere, ha detto che non sarebbe stato concesso neppure un euro con il Recovery Fund senza una riforma radicale del sistema giudiziario civile e penale. Le toghe, molte toghe hanno fatto finta di non aver capito esattamente dall’abisso di quale valutazione negativa sia scaturita quella richiesta così perentoria. L’assetto giudiziario italiano è percepito un po’ ovunque nel mondo come inefficiente e aggressivo ed aggressivo proprio perché inefficiente. In nessun altro sistema sarebbe lecito perdere tempo a discutere della tutela degli indagati dalle fughe di notizie per una semplice iscrizione su un registro del pubblico ministero, se il processo si celebrasse nel giro di qualche mese. Anzi le fughe di notizie dovrebbero essere proprio il modo attraverso cui catalizzare l’attenzione della pubblica opinione su una certa vicenda per vedere dopo poco tempo come si concluderà. Ecco non sarebbe male aggiungere al vasto e complicato catalogo delle priorità nella celebrazione dei processi di cui si parla (in parte a vanvera) da decenni, quella per cui diviene urgente ogni processo in cui si sia consumata una fuga di notizia. Così, come dire, a tutela di tutti.

Ma poiché tra quel famigerato “atto dovuto” dell’iscrizione come indagato e il giudizio finanche di primo grado trascorrono anni, ecco che la crocifissione mediatica e sociale del malcapitato cittadino assume una rilevanza enorme e ormai scarsamente tollerata e si colloca al centro di un dibattito altrove surreale. In nessun Paese civile al mondo un pubblico ministero scamperebbe alla ghigliottina professionale e mediatica se i suoi processi fossero celebrati velocemente e si concludessero con valanghe di assoluzioni. In Italia l’inefficienza del sistema consente al reprobo accusatore di farla franca e di inanellare nel proprio curriculum indagini e arresti senza dar conto delle assoluzioni che, talvolta, intervengono quando il furbetto ha tagliato la corda da un pezzo verso altri lidi e anni sono trascorsi dai magnifici exploit manettari.

L’inefficienza alimenta, nutre e sostiene l’aggressività della macchina accusatoria che sa benissimo che non la attende alcun immediato redde rationem in aula che ne possa stroncare la foga e i disegni di carriera. Anzi quanto più i processi sono mal istruiti e mal impostati, tanto più drenano risorse e tempo. I dibattimenti di processi che si sarebbe dovuti cestinare subito inciampano in estenuanti e lunghi rinvii con il pubblico ministero che, spesso, punta a buttare la palla fuori e la difesa che, timorosa di qualche sorpresa inattesa, ha di mira la prescrizione che salva la faccia a tutti. In questo contesto l’illusione di poter ancora, dopo 30 anni, vivere di una stagione di eroismo irripetibile e irripetuta e di poter stare in piedi, da nani, sulle spalle di giganti si è trasformata in uno stucchevole reducismo in cui, stancamente, si ripetono litanie e liturgie che avrebbero disgustato quella tempra di toghe, anche in ragione della presenza di certi opachi officianti.

Immaginare che le classi dirigenti europee, gli operatori finanziari ed economici che dovrebbero investire nel nostro Paese, possano essere resi timidi e ossequiosi da quell’antico retaggio e da quel fiero quarto di nobiltà della magistratura italiana è il segno di quanto arretrata e lenta sia la discussione su quel che davvero è necessario alla Nazione in questi straordinari tempi di crisi. La società, l’economia, il lavoro, la politica hanno la necessità di interloquire laicamente con un sistema giudiziario che dia loro risposte rapide e certe; hanno bisogno di processi civili e penali vissuti, non come impenetrabili paludi da schivare, ma come luoghi che con chiarezza tutelano i diritti dei deboli e comminano pene ai colpevoli.

Una parte non secondaria della magistratura italiana, soprattutto di quella inquirente, si mostra totalmente refrattaria a questa conversione. Preferisce baloccarsi in crogioli mediatici che possano far riverberare su di loro anche piccole scintille dei bagliori eroici di un tempo ormai passato, ormai da consegnare alla storia e che invece non si vuole scompaia. Il servizio giudiziario si trasforma in un sacerdozio da rinnovare permanentemente, sebbene quella fiaccola del ricordo, della celebrazione, dell’esaltazione eroica si sia sempre più affievolita e la pubblica opinione (spesso refrattarie scolaresche) assistano pigramente a celebrazioni che nulla hanno a che vedere con l’urgenza delle loro necessità, con l’angoscia dei loro bisogni quotidiani. Un manto di polverosa retorica avvolge la magistratura italiana e nessuno sa ormai esattamente come liberarsi di questa coltre che annebbia lo sguardo e incupisce gli animi.