Il dibattito sulla prostituzione
La donna: un corpo sospeso tra dono e denaro

La tratta e la prostituzione, intesa come lavoro da regolamentare sono all’apparenza due aspetti contrapposti: il primo rimanderebbe alla costrizione, l’altro alla libertà di scelta. Ma, a guardare bene, producono un effetto analogo: viste in chiave di emergenza, criminalità, ordine pubblico, e quindi bisognose di interventi operativi, soluzioni immediate, fanno passare in secondo piano le domande di fondo sulla cultura, sulla storia e sul rapporto di potere tra i sessi, in cui si vengono a collocare; impediscono, soprattutto, di mettere a tema il legame ambiguo, contraddittorio, che c’è sempre stato tra identità e funzioni diverse attribuite alla donna. È stato non a caso il femminismo degli anni 70, per la radicalità con cui si è interrogato sulle problematiche del corpo, a mettere in discussione i confini tradizionali tra la madre/moglie e la prostituta – tra il dono di sé, quale viene richiesto nella cura del figlio e degli interessi della famiglia, e la prestazione sessuale in cambio di denaro. Si riscopriva così la parentela tra figure generate entrambe dall’immaginario maschile come forme diverse di controllo sul corpo della donna.
Eppure, sembra che la “presa di coscienza” che c’è stata allora, le ricerche, gli studi, le pratiche politiche che vi hanno fatto seguito, volte a mettere in luce i legami inquietanti tra amore e violenza, non abbiano contribuito a spostare interrogativi che si ripongono quasi inalterati nel tempo:
– la prostituzione è un lavoro come un altro? Come regolamentarlo? Con quali leggi, quali diritti, sia pure considerati solo come “una riduzione del danno”?
– escludendo la tratta nelle sue forme estreme di schiavitù, quanto si può parlare di “libera scelta”?
– quanto incidono le leggi nel prevenire il fenomeno? Come evitare che diventino niente altro che misure di sicurezza e ordine pubblico?
– che rapporto c’è con altre forme di violenza manifesta, come i maltrattamenti e gli omicidi in ambito domestico?
Ora, quello che possiamo chiederci è se andare alla radice del problema sia solo un modo per rallentare interventi mirati, specifici e tempestivi sul qui e ora del fenomeno, oppure una scelta che impedirebbe di fermarsi su quei due estremi – la tratta e il sex work – che da versanti diversi finiscono per mettere fuori campo la sessualità, sia che la si riduca a fenomeno criminale – sfruttamento, racket, business, ecc.-, o a lavoro.
Nel momento in cui si decide di spostarsi su un orizzonte più ampio, anche le domande cambiano. Ne indicherò solo alcune:
– che rapporto c’è tra la prostituzione come sfruttamento sessuale e come negoziazione esplicita, sesso in cambio di denaro, e la cultura sessista che ha identificato la donna col corpo: corpo che genera, corpo erotico, obbligo riproduttivo e sessualità femminile cancellata e messa al servizio dell’uomo?
– come cambia l’idea di prostituzione quando ci troviamo di fronte oggi a quello che qualcuna ha definito “un contesto prostituzionale allargato”: figure ambigue come le escort, le donne-immagine, ma anche precarie, lavoratrici, manager, a cui viene chiesto di “sapersi vendere bene”?
– quanto incidono nel mantenere una sessualità separata dalla relazione – amorosa, affettiva, intellettuale, ecc.- le logiche del mercato e del consumo, che portano alla mercificazione di tutto, al trionfo del godimento a portata di mano al posto del desiderio? Quanto interviene invece – o a sua volta – un immaginario sessuale che porta il segno maschile, ma che le donne hanno fatto proprio, tanto che a volte non è facile separare nettamente soggetto e oggetto, vittima e aggressore, amore e violenza, capire da che parte sta il potere.
La conclusione a cui arriva nei suoi studi l’antropologa Paola Tabet è che lo scambio sessuo-economico è un fenomeno sociale, presente nel rapporto tra uomini e donne nelle civiltà più diverse: un “continuum”, un arco che va da rapporti come quelli matrimoniali fino ai rapporti di prostituzione moderna, al sex work, dalla negoziazione esplicita a tutte le forme implicite di “seduzione” per ottenere un compenso. Per l’ideologia sessista, che attraversa tutte le civiltà e che è radicata nel senso comune, la prostituzione è possibile in tutte le donne come la maternità, in quanto parte della sua costituzione organica. Ciò significa far passare come “naturale” una costruzione che viene dalla storia e dalla cultura. Nella disuguaglianza di accesso alle risorse, la donna è stata spinta forzatamente a fare del corpo il suo capitale, una merce di scambio, sia nelle relazioni matrimoniali riproduttive, che in quelle non matrimoniali. Detto altrimenti: la donna non è stata pensata come soggetto di desiderio, con una sua specifica sessualità. Scambiandosi con altro da sé –il denaro- la sessualità femminile si è avviata a diventare un servizio e infine un lavoro.
Dove è apparso in modo più evidente l’uso che la cultura maschile ha fatto della contrapposizione tra la “puttana” e la “donna per bene”, usando la prostituzione come “frusta che tiene l’umanità femminile in stato di subordinazione”, è stato nella discussione parlamentare che ha accompagnato l’approvazione della Legge Merlin, di cui oggi si torna a parlare da parte dei politici che vorrebbero abolirla. La riporta nel suo libro La legge del desiderio (Carocci 2006) Sandro Bellassai. Emerge con chiarezza che lo stigma non è contro la prostituzione, ma più in generale contro la sessualità femminile, che le donne venivano riscoprendo, separata dalla procreazione. A essere messi in discussione erano la maternità obbligatoria, il ruolo di moglie e madre come destino della donna: una presa di coscienza e un cambiamento del rapporto col corpo e con la sessualità che si imporrà un decennio dopo, negli anni 70, col femminismo. La causa fondamentale della prostituzione viene individuata nella sessualità femminile: sulla scena del vizio viene collocata soltanto la donna. È la donna che eccita il desiderio, che dà corpo alla sessualità maschile, è a lei che si chiede di rinunciare alle sue intenzioni “immorali” verso l’uomo. I segnali della prostituzione vengono individuati in una sessualità femminile non indirizzata verso la maternità e la famiglia. «…la femminilità è dedizione all’uomo […]. La sensibilità erotica clitoridea (quando permane oltre la pubertà) è tipico per la maggior parte delle prostitute […] che presentano un ridottissimo erotismo vaginale […] ostilità verso il sesso opposto, la presenza della masturbazione, il facile scivolamento nel lesbismo» ( Dino Origlia). Le stesse accuse verranno fatte alle femministe negli anni 70, quando, a partire dai libretti verdi di Carla Lonzi – La donna clitoridea e la donna vaginale, Sputiamo su Hegel -, dai gruppi di autocoscienza, si veniva scoprendo la cancellazione che ha subito, non solo la sessualità femminile, ma la donna come persona, individuo. La ricerca di autonomia dai ruoli tradizionali fu letta, da psicologi, sessuologi, psicanalisti, come rifiuto dell’uomo, richiesta di prestazioni sessuali esorbitanti – “orgasmi multipli” – lesbismo, patologia, perversione. Era chiaro che la contrapposizione tra la moglie/madre e la prostituta era servita da regolatore, controllo, censura della sessualità femminile non procreativa tout court.
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