La rubrica culturale
La fuga dei corpi, storia di un viaggio in cui ritrovarsi viandanti
«Daniel, una volta, ha detto che non abbiamo sciagure collettive, ma solo sciagure private. Però penso che la strada di ciascuno è la strada di tutti: che non ci sono viaggi isolati perché non ci sono viandanti isolati». Così Vanni, uno dei due protagonisti (l’altro è Daniel) del romanzo del romano Andrea Gatti – classe 1992 – “La fuga dei corpi”, edito da Pidgin, casa editrice indipendente napoletana che si sta facendo valere con scelte convincenti. La storia di Daniel e Vanni è quella di due amici poco più che ventenni, in viaggio verso la liberazione dai pesi vani che gli esseri umani si compiacciono di trascinare fino alla morte e oltre.
Sono diretti verso la Spagna, la meta – Cala Bruja – parrebbe un paradiso di pace e libertà e i due sperano di trovarvi risposte al rigetto di stabilità affettive e lavorative, da entrambi percepite come inautentiche. Si dirà: e non è sempre la stessa storia, della gioventù ribelle, che poi si scontra con la vacuità delle stesse utopie erette a depositarie di verità rinnovate? Perché scriverne ancora? Anch’io, leggendo, mi sono posto questa domanda. La risposta, qui, è duplice e rende il romanzo una lettura sempre più tesa sino all’epilogo lacerante. Innanzitutto, è il viaggio stesso a campeggiare lungo l’intero racconto: e di questo viaggio – gli sguardi ostili degli altri, la fatica della canicola, il senso di pericolo e di abbandono, la meraviglia di conquistare un pubblico inatteso attraverso la musica e la voce di Vanni – ci viene restituita tutta l’ambiguità latente, l’inestricabile connessione tra processo di liberazione e meccanismi di nuova costrizione. Il viaggio è lotta. Non c’è requie. Non scampo. Nessuno sconto (di cui forse godranno, illusoriamente, gli inamovibili). Dunque Gatti ci consegna una vera e propria meditazione sul viaggio in sé, condensata dalle parole che ho citato in apertura, dentro una prospettiva, diremmo, fieramente contemporanea: il viaggio è necessario, e noi dobbiamo ricominciare a divenire pellegrini consapevoli della complessità.
Dicevamo di una risposta duplice: già, perché scrivere di un viaggio di giovani uomini alla ricerca della spiaggia di nudisti strafatti all’insegna di libertà e vita naturale riceve un senso pregnante dal finale che attende il destino di Daniel e Vanni. Di cui non diremo nulla, se non che è tragicamente coerente con la tensione che l’autore riesce a costruire dall’inizio (nonostante una serie di dettagli narrativi che, eliminata, avrebbe consentito di rinvigorire ulteriormente il tessuto del racconto); tensione capace di gettare continuamente ombra dov’era luce, semi cattivi dove apparivano piantagioni di bene. Ed è vero che non ci sono viaggi isolati, perché non ci sono viandanti isolati: ci sono, piuttosto, realtà entangled, strettamente, irrimediabilmente connesse e gli effetti di ciò, prevedibili o meno, vanno solo raccontati, anzi, cantati, senza paura. E di una cosa bisogna certamente dare atto a Gatti e a Pidgin: di non aver avuto paura, nello scrivere e nel pubblicare un libro in cui la terribile evidenza di ciò che riposa nei pozzi dell’anima umana è intonata lungo il registro sinistro del candore di un’Elettra o di un Caino.
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