Lungo Pepper Street, una stradina di Cabrillo, cittadina non lontana da San Francisco, vivono diverse famiglie, persone qualunque, con vari figli e figlie qualunque, conducendo una vita qualunque. I Desmond, i Perlman, i Random-Jones, i Roberts, i Merriam, i Byrne eccetera, gli uomini lavorano, non si capisce bene cosa facciano, le donne chiacchierano, fanno il tè, spettegolano di striscio, educano questa frotta di bambini abbastanza cattivi: già, vuoi vedere che il futuro sarà orribile? Ordinary people, molto americani, con questi mister che leggono il giornale distrattamente, come trasognati in un’esistenza più che monotona, di là dal muro che delimita il loro agglomerato di case così claustrofobico, dove persino la tragedia finale viene masticata come i cornflakes della colazione con la torta di mele fatta da mogli insulse.

“La strada oltre il muro fu il primo romanzo di Shirley Jackson, del 1948, che torna ora con Adelphi per la traduzione magnifica di Silvia Pareschi. E la vicenda è tutta qui, come in un dramma di Čechov, dove sostanzialmente non succede niente, in quanto a “fatti”, eppure c’incanta per tre ore. È che Jackson racconta i dettagli di piccole vite di personaggi insignificanti come un entomologo va alla ricerca di qualche macchiolina per individuare la malattia: e qui di “malattie”, nell’animo di questi americani qualsiasi, ce ne sono diverse. Il fatto è che dietro la normalità banale delle persone comuni – lo sappiamo – si nasconde il tumulto del Male, la tentazione del peccato, direbbero i cattolici, la voglia di uccidere padri e sorelle, direbbero i freudiani, la frenesia di infrangere le regole, direbbero i marxisti. Non si sa bene cosa, ma qualcosa ci deve essere, di strano.

Non c’è dunque una vera e propria trama ne “La strada oltre il muro” ma ce ne sono cento di storie piccole e piccoli pensieri. E il lettore viene preso dai dialoghi dei vari personaggi, dalla loro formalità quotidiana, e soprattutto dai bambini, le bambine in particolare, nella continua mostruosità dei loro pensieri reconditi, nella loro angosciosa rivalità, nei loro incommensurabili complessi (il personaggio di Harriet Merriam, bambina grassa, è il più commovente). C’è del mistero naturalmente nella vecchia miss Fieding, o in quelle passeggiate serali di mr. Roberts o nelle nuove inquiline Terrel. È come un temporale che non scoppia, sotto il cielo americano di Pepper Street.

La maestria di Shirley Jackson è al livello dei grandi della letteratura americana del Novecento: «Harriet, sola nella sua stanza, si sedette accanto alla finestra. Fuori, nella prima, intensa oscurità, gli eucalipti erano calmi e infinitamente delicati, con qualche foglia che di tanto in tanto sfiorava dolcemente le altre. Era abituata a immaginarli come un merletto contro il cielo notturno; nelle notti di vento smaniavano, cercavano di strapparsi dal suolo come creature impazzite». O ancora: «Pat si attorcigliò in filo d’erba tra le dita, sentendolo più tangibile del cibo, dei libri; gli sembrava che la volta celeste fosse lì apposta per lui, e che si preoccupasse del suo immediato benessere».

È grande prosa molto americana – può anche dispiacere al lettore più in cerca di vere storie – nella quale scorrono le parole, i dialoghi di un tempo sospeso e sempre uguale, fino al grande cambiamento della strada che segna uno stacco nella vita di Pepper Street parallelamente al dramma di una bambina: sono due fatti che rivoluzionano l’esistenza dei personaggi che piano piano evaporano, come la vacuità delle loro esistenze, l’inutilità cattiva delle loro parole: «Herriet Merriam restò a badare al padre dopo morte della madre. Non si sposò mai».