Il commento
La politica dei giochi proibiti
La politica che usa la giustizia non può lamentarsi se ne diventa schiava. La sola idea di avviare una procedura di scioglimento per mafia di Bari è un azzardo, tanto più se la motivazione è l’arresto di un paio di politici locali e l’infiltrazione di una municipalizzata.
Mafia Capitale avrebbe dovuto insegnare qualcosa. Il mondo di mezzo che l’indagine del procuratore Pignatone portò alla luce nel 2015 tutto era tranne che mafia, il cui simbolo però divenne un marchio di infamia per Roma e per l’Italia. Dopo tre anni la Cassazione demolì quel teorema, dietro il quale si celava il tentativo di una parte magistratura di esportare i rimedi spicci della legislazione speciale in tutto il Paese.
Il danno economico e di immagine fu altissimo e mai debitamente analizzato. Eppure in quella circostanza la politica seppe resistere al pressing dell’Antimafia e si limitò a sciogliere il Consiglio comunale di Ostia, non quello di Roma. Stavolta il rischio è di andare oltre. L’invio a Bari della commissione d’accesso non è un “atto dovuto”, come sostiene Piantedosi, ma un atto politico, incauto e sgrammaticato, che instaura una conflittualità senza precedenti nella democrazia di una grande città del Sud.
Dove l’esperienza di trent’anni di commissariamenti, lungi dal bonificare la politica, ha cronicizzato l’opacità della vita pubblica e ha nutrito una burocrazia prefettizia dell’emergenza non sempre all’altezza del compito. Invece di replicare questo schema, sarebbe il caso di interrogarsi sugli esiti di una politica fallimentare.
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