Dialogo con la vice presidente dell’Università di Tel Aviv
La prof Shamir: “Rompiamo le barriere costruite dopo il 7 ottobre: Israele e Europa tornino allo scambio e al dialogo”

Ieri e lunedì scorso Firenze ha ospitato un importante convegno a porte chiuse organizzato dall’ Università di Tel Aviv allo scopo di analizzare su rigorose basi scientifiche i vecchi e nuovi fenomeni di antisemitismo. L’iniziativa ha avviato una interessante riflessione tra studiosi con l’obiettivo – in una situazione oggettivamente difficile – di riavviare gli scambi culturali ed il dialogo con le università italiane ed europee. Per saperne di più Il Riformista ha intervistato la professoressa Milette Shamir, ordinaria di storia americana, vice presidente dell’Università di Tel Aviv e Responsabile delle Relazioni Internazionali dell’ateneo.
Professor Shamir, quali messaggi vuole inviare da Firenze?
«Un obiettivo è rafforzare il dialogo con le università e i colleghi italiani ed europei. Dal 7 ottobre e dall’inizio della guerra, c’è stato chi ha tentato di costruire barriere, imporre boicottaggi e mettere a tacere il dialogo all’interno del mondo accademico. Sfortunatamente, questi tentativi si basano per la maggior parte su falsità, distorsioni dei fatti e vera disinformazione sulle università israeliane».
Come?
«L’Università di Tel Aviv, ad esempio, è accusata di “apartheid”, un’esclusione sistematica degli studenti arabi. Ma in realtà, il 20% degli studenti dell’Università di Tel Aviv sono arabi musulmani e cristiani e l’università ha diversi programmi volti a reclutare e sostenere attivamente questi studenti. Ciò che le persone in Europa non vedono spesso è come le relazioni tra studenti arabi ed ebrei nei campus israeliani siano state molto migliori che in altre parti del mondo, anche durante la guerra. Altri ci accusano di essere “agenti” del governo e dell’esercito. Ma le università israeliane godono di grande libertà, infatti Israele è classificata tra il 20% più alto al mondo per libertà accademica. Non siamo agenti del governo. Infatti, la Tel Aviv University è il luogo in cui spesso si sentono voci che mettono in discussione la politica del governo. Pochi di coloro che chiedono il boicottaggio conoscono i numerosi progetti della nostra università che sostengono la pace con i nostri vicini e la ricerca che svolgiamo per contribuire alla salute, alla sicurezza alimentare, all’acqua pulita e all’equità sociale nella regione».
Il fenomeno dei boicottaggi si manifesta in forme simili su entrambe le sponde dell’Oceano Atlantico?
«Il movimento di boicottaggio è attivo sia in Nord America che in Europa, ma in modi diversi. Qui in Europa stiamo assistendo ad atti di boicottaggio a livello di organi istituzionali di alcune università. Negli Stati Uniti, tuttavia, almeno fino ad ora, le decisioni vengono prese a livello individuale e da singoli professori».
Quali sono i valori che ispirano la vostra università?
«Uno dei valori fondamentali della nostra università è ciò che condividiamo con altre università in tutto il mondo: la libertà accademica. Ciò significa libertà di espressione, libertà di ricerca, ma anche libera circolazione della conoscenza e libertà di associazione e collaborazione. Senza questo tipo di libertà, non possono esistere università di ricerca eccellenti e senza università di ricerca eccellenti il mondo sarà un posto molto più povero, oscuro e pericoloso. Ecco perché le collaborazioni internazionali sono al centro di tutto ciò che facciamo, perché accogliamo docenti e studenti internazionali nel nostro campus e perché promuoviamo una cultura di pluralismo e rispetto reciproco per tutti nel campus».
Quali sono gli altri obiettivi della sua visita in Italia?
«Siamo venuti per ascoltare voci diverse e per comprendere le esigenze sia delle comunità ebraiche che dei nostri numerosi amici italiani. In alcune università italiane si sono verificati gravi episodi di antisemitismo. Vogliamo contribuire con un po’ della competenza che abbiamo all’università di Tel Aviv sulla comprensione dell’antisemitismo e sulla costruzione della resilienza per supportare i nostri amici qui. Dopo il 7 ottobre, quando stavamo ancora affrontando le conseguenze del massacro, abbiamo ricevuto un’incredibile ondata di sostegno da colleghi in Italia e in altri paesi. Ha fatto un’enorme differenza per noi. È tempo per noi di restituire. Il nostro workshop a Firenze è un piccolo passo in quella direzione».
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