Sarà mai possibile, in Italia, una discussione seria sulla separazione delle carriere? Al momento, c’è poco spazio per l’ottimismo, in verità. I toni quasi epici con i quali l’A.N.M. sta lanciando una non meglio precisata “mobilitazione” politica e culturale, spacciando questa riforma ordinamentale come un sovvertimento costituzionale, lasciano pochi spazi. Anche perché è una mobilitazione segnata da parole d’ordine (“si vuole mettere il Pubblico Ministero alle dipendenze della politica”) fondate sulla pura e semplice manipolazione della verità.

La riforma adotta il sistema portoghese (carriere separate, Pubblico Ministero indipendente), e lo blinda in Costituzione, sancendo l’indipendenza del P.M. “da ogni potere” (art.104 nella riforma). Qualcuno si è preso la briga almeno di informarsi, e poi di misurarsi, con l’esperienza portoghese? Ma figuriamoci. Agitare fantasmi è molto più facile che misurarsi con la realtà. Perciò noi di PQM siamo andati a chiederne conto ad un grande giurista portoghese, già giudice della CEDU, già esperto del GRECO (gruppo di Stati contro la corruzione), persona al di sopra di ogni possibile sospetto di faziosità. Leggete cosa ci dice, cosa ci racconta di come funziona il loro sistema ordinamentale, che questa nostra riforma vuole adottare; di come la indipendenza del PM sia intangibile, e di come l’autorevolezza del giudice e del P.M. agli occhi della pubblica opinione sia cresciuta in modo formidabile. C’è qualcuno della magistratura associata, e soprattutto delle opposizioni parlamentari a questa riforma, che abbia voglia di misurarsi con quelle parole? Nel nostro piccolo, siamo a disposizione. Accadrà? Non credo, perché in questa vicenda la realtà non interessa.

L’aria da ‘ultima spiaggia’

Intanto, noi abbiamo dato voce anche a tre autorevoli magistrati. Non a caso, sono giudici (di Tribunale, di Corte di Appello e di Cassazione), non Pubblici Ministeri. Loro pensano che la separazione delle carriere sia la strada giusta verso il giusto processo, e spiegano perché. Pacatamente. E – io aggiungo – coraggiosamente. Perché sono in tanti i magistrati che la pensano come loro, credetemi. Ma sono in pochi ad avere il coraggio o la voglia di dirlo pubblicamente, ed è anche facile capirne il perché. Basta respirare l’aria da “ultima spiaggia” che tira nella magistratura associata, che è poi quella che conta nel consentire o bloccare carriere ed aspirazioni dei magistrati italiani, per comprendere quanto possa essere difficile esporsi con idee diverse da questa crociata furibonda. Ma noi una piccola speranza la coltiviamo: sono i primi passi quelli che contano, altri ne seguiranno.

L’attuale vero esercizio del potere

La magistratura associata non sta ingaggiando una battaglia in difesa della Costituzione, che si difende benissimo da sola e che nessuno sta insidiando, ma in difesa di un assetto di potere che, per la prima volta, viene messo in discussione. Un assetto di potere che ha reso protagonisti assoluti della giurisdizione non i giudici, cioè coloro che decidono se sei colpevole o innocente, se vai arrestato, se debbono esserti sequestrati i beni, ma una parte processuale, cioè il Pubblico Ministero, poco più del 20% dei diecimila magistrati italiani. Un assetto di potere che ha consegnato nelle mani dell’inquirente, in sinergia con il potere dei media, il vero esercizio di fatto del potere di giudicare un cittadino. Conta l’accusa, non il processo; l’arresto, non la sentenza.

La separazione delle carriere vuole riequilibrare questa anomalia, restituendo al giudice la piena indipendenza dall’inquirente, e la effettiva equidistanza dalle parti. Perciò vi riportiamo anche stralci della famosa intervista di Giuliano Vassalli al Financial Times nel 1987, alla vigilia del varo del nuovo codice. Senza la separazione tra inquirente e giudicante, diceva profeticamente, il nuovo codice non potrà mai funzionare. Chiaro? Buona lettura!

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