In un momento di crisi della credibilità dell’informazione e di attacchi ibridi sempre più sofisticati, ha suscitato sconcerto e preoccupazione la scelta del segretario di Stato americano Marco Rubio di chiudere l’unico ufficio del Dipartimento dedicato al contrasto della disinformazione. Una decisione che va ben oltre la burocrazia interna: è un gesto dal forte valore simbolico e politico, che rischia di lasciare scoperto un fronte cruciale della sicurezza democratica. L’ufficio in questione, noto come Counter Foreign Information Manipulation and Interference Hub (R/FIMI), era nato con l’obiettivo di monitorare e contrastare le campagne di disinformazione orchestrate da attori esterni. Operava come una diramazione dell’Ufficio per l’antiterrorismo del Dipartimento di Stato ed era considerato un presidio strategico per l’analisi di contenuti manipolati, immagini contraffatte, deepfake e per la tracciatura delle narrazioni ostili propagate da regimi autoritari attraverso piattaforme digitali. Il R/FIMI si occupava inoltre del coordinamento con alleati e partner internazionali, contribuendo a rafforzare una risposta transatlantica alla manipolazione informativa. Tra le sue attività vi erano lo studio delle tecniche di guerra cognitiva e l’elaborazione di modelli predittivi per identificare le fonti e gli obiettivi delle operazioni di influenza. Russia, Cina e Iran erano regolarmente citati nei report dell’ufficio, come attori sistemici impegnati a minare la coesione sociale e istituzionale dei Paesi occidentali.

La decisione presa con una semplice mail

La decisione di chiuderlo è arrivata all’improvviso, comunicata tramite una semplice email ai dipendenti, sul modello delle repentine riorganizzazioni amministrative viste durante la precedente amministrazione. Rubio ha sostenuto che “il modo migliore per combattere la disinformazione è la libertà di parola”, riaffermando un principio che però, in questo caso, rischia di essere applicato in modo paradossale: lasciare il campo libero alla propaganda ostile per non rischiare di limitare la libertà d’espressione. Non si tratta di una razionalizzazione di bilancio né di un semplice taglio tecnico, ma di una chiara vittoria simbolica per il movimento Maga. Da tempo l’ufficio era stato accusato da alcuni esponenti della destra radicale americana di rappresentare un avamposto dell’“agenda liberal” all’interno del governo federale, accusato di etichettare come “disinformazione” qualsiasi contenuto critico verso l’establishment. Questa lettura ha finito per indebolire il consenso bipartisan che, almeno in teoria, dovrebbe sostenere ogni sforzo volto alla protezione dell’informazione pubblica da manipolazioni ostili. Il risultato è ora una resa operativa che, in nome della libertà, lascia sguarnito un fronte che molti considerano fondamentale nella guerra del XXI secolo.

La competizione tra Stati

La chiusura di R/FIMI pone interrogativi profondi sulla capacità delle democrazie di difendersi in un contesto in cui la competizione tra Stati si è spostata sempre più su piani intangibili. Le guerre moderne non si combattono più solo con armi convenzionali o cyber-attacchi distruttivi: la manipolazione dell’informazione, l’ingegneria sociale e la sovversione psicologica attraverso contenuti digitali sono oggi tra gli strumenti preferiti di chi vuole destabilizzare gli avversari senza ricorrere a conflitti diretti. La disinformazione è diventata una vera e propria arma geopolitica, economica e culturale. La capacità di influenzare narrazioni, polarizzare il dibattito, minare la fiducia nelle istituzioni e generare caos è oggi una risorsa tanto potente quanto i carri armati di un tempo. Non a caso, i servizi di Intelligence europei e americani considerano la “manipolazione informativa” tra le principali minacce per la stabilità interna.

La preoccupazione

La Russia, in particolare, ha fatto scuola con le sue operazioni in Ucraina, nel Regno Unito durante la Brexit e nelle elezioni presidenziali statunitensi del 2016. La Cina non è da meno, con una strategia di influenza più sottile ma altrettanto pervasiva, spesso mascherata dietro la diplomazia culturale, la presenza mediatica internazionale e una massiccia attività di propaganda su piattaforme occidentali. Ex diplomatici e funzionari esperti non hanno nascosto la loro preoccupazione. La chiusura di R/FIMI è vista da molti non solo come un vuoto operativo, ma anche come un arretramento culturale: il segnale che le istituzioni rinunciano a presidiare il campo dell’informazione, lasciandolo alla legge del più forte – o del più rumoroso.

Tullio Camiglieri

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