Democrazia penale. Che cosa è.
Esistono due modi per spiegare il significato di una espressione, “democrazia penale”. Un modo la avvicina alla semplice regola politica maggioritaria. L’altro ai caratteri della democrazia costituzionale. Nel primo significato si intende che le leggi penali sono dominate da logiche maggioritarie, anche populistiche, basate soprattutto sul mero consenso, che può essere emotivo, o privo di basi scientifiche ed empiriche, e si indirizzano alla protezione di sentimenti di sicurezza collettivi o a sostegno di politiche securitarie capaci di attrarre consensi elettorali; nel secondo significato, al contrario, si intende che anche in una democrazia maggioritaria, quando si entra nella sfera dei diritti fondamentali delle persone, sia vittime e sia autori di reati, occorre che la legge parlamentare sia espressione sì di pluralismo (nessuna aristocrazia degli esperti), ma anche di garanzie, che vedono entrare in campo competenze differenziate, tecniche, scientifiche, fondate su vincoli di realtà (basi empiriche) e di razionalità (principi costituzionali e diritti sovralegislativi) rispetto a valori o scopi perseguibili.

Dunque, in quella espressione c’è scolpito il conflitto tra principio maggioritario (sufficiente per la legge) e diritto dei princìpi. Democrazia maggioritaria e democrazia costituzionale non dovrebbero essere in conflitto, ma esprimono culture differenti, che i diversi partiti politici rappresentano. La prima riflette le logiche della politica massmediatica, quelle che il giornalismo quotidiano esprime così bene; la seconda quelle delle garanzie che si impongono alla gestione parlamentare della legislazione: ed è una dimensione più tecnica, da giuristi, tanto più importante quanto di minore soddisfazione massmediatica. La democrazia penale contiene in sé la sintesi della lotta per il diritto nelle forme dialettiche di legislazione e Costituzione. Legge (lex) e diritto (ius) sono dunque due poli originari del discorso sulla giustizia e anche su quella penale.

Autore e vittima. Pena, riparazione e risarcimento.
In questa lotta tra le due democrazie oggi non ci sono più solo lo Stato-guardiano e l’autore del reato: è presente una dialettica tripolare, perché c’è anche la vittima. Chi studia storia del diritto penale e anche della filosofia penale, dopo l’illuminismo, faticherà a trovare una tematizzazione della vittima nella tradizione del garantismo, che vedeva la vittima sostituita e protetta dallo Stato, ma neutralizzata nel processo penale, ispirato dallo scopo di impedire la vendetta, così soltanto trasformandola in giustizia. L’origine di questa idea-postulato ci riporta all’Areopago delle Eumenidi di Eschilo, quando Oreste verrà “salvato” dalla furia delle Erinni vendicatrici, per l’intervento di Atena che interrompe la spirale delle vendette solo nel nuovo contesto di un Tribunale: il quale nasce esattamente per sostituire alla vendetta la giustizia, che peraltro può anche significare, in alcuni casi, esenzione dalla pena, anche se normalmente essa suppone che si paghi un prezzo non simbolico o spirituale per il delitto.

La vittima, a questo punto, non è più rappresentata dalle Erinni, ma ricollocata in un discorso di razionalità giuridica complessiva, e tradizionalmente deve essere controllata rispetto alle istanze puramente vendicatrici di cui si renda portatrice. La persona offesa nel nostro processo, e in particolar modo nel dibattimento, cioè nella fase del giudizio, esiste praticamente solo come testimone o come parte civile. Anche oggi le norme sulla persona offesa (la vittima) e i suoi diritti risaltano soprattutto nella fase delle indagini. A giudizio può chiedere di essere risarcita. Ma essere risarcita non significa ancora riparazione. Non è questa, infatti, la giustizia riparativa. La giustizia riparativa comincia quando si offre all’autore dell’illecito una alternativa tra la semplice punizione e un riscatto. È raffigurata nella scena della seconda città rappresentata nello Scudo di Achille, descritto nell’Iliade (XVIII, 497-508). «E il popolo era raccolto nella piazza: lì una lite sorgeva, e due uomini discutevano per un compenso di un uomo ucciso; l’uno scongiurava di dare tutto dichiarandolo davanti al pubblico, ma l’altro diceva di non voler prendere nulla; entrambi ricorrevano all’arbitro [‘istor’] per capire il limite [‘péirar’] della causa. Il popolo acclamava entrambi, c’erano i sostenitori dell’uno e dell’altro».

Qui la pena è posta in alternativa al riscatto da attribuire ai parenti della vittima. Non è il risarcimento, che nei sistemi giuridici moderni è una semplice voce, una prestazione parallela, di quanto il responsabile deve, tra le pretese dello Stato e quelle del danneggiato. Mentre il risarcimento non ha, almeno formalmente, a che vedere con la pena, ma si aggiunge a questa, la riparazione è una componente che originariamente fa ripensare la pena, sottrae a essa qualcosa. Quando c’è riparazione dell’offesa, non semplicemente del danno materiale o economico, la pena stessa non può essere quella che si sarebbe applicata in sua assenza.

Che cosa distingue la riparazione dalla pena. Le due anime della riparazione.
La riparazione non è strutturalmente una pena, una pena subìta, cioè inflitta autoritativamente dallo Stato come prezzo per il reato, o per un illecito. La pena infligge un male o una perdita di diritti sempre aggiuntivi al semplice valore del danno: contiene un quid pluris, una singolare soddisfazione che ha valore preventivo, più che retributivo: sarebbe troppo poco poter pagare, per chi può, con prestazioni economiche corrispondenti al valore del ‘danno’, o restituire il maltolto. C’è una sorta di disvalore aggiunto nella pena che viene applicato come prezzo, capace di intimidire e dissuadere dal delitto. Proporzionato fin che si vuole a livello edittale, questo disvalore risulterà comunque sproporzionato rispetto al danno originario, perché lo eccede e si applica autoritativamente.

Invece la riparazione nasce volontaria, e solo in alcuni casi diventa un programma di Stato, che la favorisce, la sostiene e la affianca alla pena, sì da sottrarre a quest’ultima una parte, più o meno rilevante. La riparazione è una prestazione a favore della vittima (persona offesa), o anche della collettività nei molti reati senza vittima o a vittima indeterminata e diffusa, e comunque è una attività che neutralizza l’offesa (anche quella dei reati di pericolo) restaurando una situazione di sicurezza, di ricostituzione, di reintegrazione, o di riconoscimento e rispetto, dei beni protetti. Dove ci sia (o ci sia stata) una vittima in carne e ossa, la riparazione consiste in “un percorso interpersonale”, non in una semplice “prestazione” oggettivata: quel percorso, condotto attraverso l’ausilio di una persona terza, che non è parte del processo, si chiama mediazione, e riguarda la vittima reale o anche un soggetto vicario che la rappresenta, e può sfociare in un esito positivo di tipo concreto (risarcimento, prestazioni varie) o anche più simbolico.

È una prassi che nasce al di fuori dello Stato e che l’ordinamento può regolare e promuovere, ma si applica comunque a un numero circoscritto di processi, e senza l’intervento del difensore, che ne risulta estromesso (anche se vigile dall’esterno), al pari del giudice o del pubblico ministero, perché è un percorso extraprocessuale. Oggi si parla di giustizia riparativa soprattutto in rapporto alla mediazione, ma questa è una visione parziale del fenomeno della riparazione, che è molto più ampio, perché spazia dalle ricostruzioni della sicurezza nell’impresa, a quelle ambientali, al pagamento dei debiti tributari, alle sanatorie edilizie, alle collaborazioni processuali, ai lavori di pubblica utilità nelle forme della messa alla prova, alla bancarotta riparata, alle numerose ipotesi riparative disseminate nelle leggi speciali e non solo nel codice. Anche la confisca per equivalente è una forma di riparazione, ma in tal caso coatta, imposta dallo Stato, che può restituire il profitto del reato alla persona offesa, invece di incassarlo inopinatamente. Entrambe queste forme di riparazione, interpersonale e prestazionale, compongono i percorsi dell’idea riparativa.

Una nuova concezione della pena. La pena subìta e la pena agìta.
La riparazione non è di classe, perché non coincide col risarcimento, che solo chi ha i mezzi può attuare; non è contraria alla presunzione di innocenza, perché non ha effetti negativi sul giudizio finale, che può essere di non colpevolezza, o di insussistenza del fatto in senso tecnico o storico; è espressione del consenso dell’autore dell’offesa e ha bisogno di essere regolata perché risulti più determinata nel tipo di prestazioni che possono produrre benefici anche importanti nel carico sanzionatorio, ma con la contropartita di un riscatto, di una condotta attiva reale a favore della persona offesa. È questa una cultura della pena diversa, perché introduce l’idea di una pena agìta; di una pena che promuove comportamenti attivi, i soli che consentono, anche nell’esecuzione carceraria, una sorta di rieducazione-risocializzazione, mettendo in gioco comportamenti successivi al reato che da sempre sono da valutare positivamente nella commisurazione della pena, e che sottraendo a questa una sua parte, divengono pena agìta, ne ridefiniscono il concetto.

La pena subìta tradizionale è dunque un istituto che può rimanere primario per chi non intenda farsi parte attiva di percorsi riparativi, ma strutturalmente è ciò che residua dopo che si sia, se lo si intende fare, operato a favore della vittima o della collettività, per ricostruire la situazione dell’offesa cagionata. Non c’è pena che non sia condizionata da percorsi riparativi, diventando così post-riparatoria la sua parte di prezzo aggiunto. Oggi è interesse dello Stato, ma anche delle vittime, promuovere una strategia sanzionatoria che contenga fin da subito, nei programmi, percorsi utili, che rendano finalmente il diritto penale non più semplicemente un mezzo che sanziona senza aggiustare nulla, una lex minus quam perfecta, che infligge un male aggiuntivo a quello commesso (un “raddoppio del male”), senza preoccuparsi di ricostruire la situazione sociale, la frattura prodotta, senza output positivo.

La pena agìta, perciò, rappresenta un esito dal valore politico trasversale: non è “cattolica” (anche se la mediazione è molto sostenuta dai giuristi di quell’area), non è “buonista”, non è “debole”. Certo è una visione alternativa a quella sublimazione della vendetta che il giustizialismo coltiva regredendo a prima della invenzione dell’Areopago, perché vorrebbe che il giudice, ascoltando le Erinni, fosse soprattutto un distributore di pene subìte. È proprio la funzione della giustizia che cambia, e con essa anche il ruolo e l’immagine sociale del giudicante.