Il 6 novembre scorso il Governo Meloni, nel tentativo di trovare una soluzione al problema dei flussi migratori irregolari nel Mediterraneo, ha siglato un accordo bilaterale con l’Albania del premier Rama. Il protocollo è apparso, immediatamente, non privo di criticità e zone d’ombra, a controprova di ciò, la Corte costituzionale albanese ha sospeso la ratifica da parte del parlamento, accettano il ricorso proposto dall’opposizione albanese di centro-destra. In attesa della decisione della Corte, e in attesa che il Parlamento italiano autorizzi la ratifica e ne dia esecuzione, in conformità all’art. 80 della Costituzione; sono diverse le criticità emerse fin dall’inizio dei lavori. Il contenuto dell’accordo mette in luce varie irregolarità e violazioni della normativa vigente, la sua formulazione ambigua e incompleta aumenta significativamente il rischio di comprometterne un’attuazione futura concreta.

La gestione dei migranti avverrà in due strutture costruite al di fuori dei confini nazionali, extra-Ue, con ruoli di prima accoglienza e rimpatrio e quindi, rispettivamente, adibiti ad hotspot e a centri di permanenza creati sulla scorta del modello Cpr. Il testo dell’accordo crea in primis un contrasto con il principio fondamentale di uguaglianza e non discriminazione, poiché traccia confini poco chiari riguardo alla selezione dei migranti destinati al trasporto coattivo in Albania. Inoltre, non fornisce indicazioni chiare sul trattamento e le condizioni riservate a soggetti vulnerabili, come minori, donne e vittime di tratta. Si contesta la legittimità del trasferimento e trattenimento dei migranti in Paesi terzi e l’inosservanza del principio di non-refoulement sancito dalla Convenzione di Ginevra. Il Protocollo delinea infatti una circostanza in cui i richiedenti di protezione internazionale sono già sotto giurisdizione italiana, in quanto trasportati e soccorsi da navi e aeromobili che ne battono bandiera. Molti dubbi si sollevano, poi, sulla reale accessibilità al sostegno legale e alla difesa. I maggiori dubbi riguardano la possibilità di un controllo giurisdizionale efficace delle procedure, che possa garantire il diritto a un ricorso effettivo in caso di necessità, come sancito dall’art. 6 Cedu.

In sintesi, l’accordo tra Italia e Albania in materia migratoria costituisce un nuovo approccio nella gestione extraterritoriale di migranti e richiedenti asilo, che ne promuove una visione securitaria. L’obiettivo di esternalizzare le frontiere, attraverso una collaborazione interstatale nella gestione dei soccorsi, alimenta il rischio di ignorare il quadro normativo di riferimento, con il potenziale rischio di investire su un progetto azzardato e molto costoso. Con l’attribuzione a paesi al di fuori dell’Unione Europea della responsabilità dell’accoglienza e del diritto d’asilo in cambio di promesse e aiuti economici, l’accordo sembra mancare di una strategia efficace nel contrastare anche l’immigrazione clandestina. Tale approccio rischia di generare nuove problematiche nel settore e di sommarsi a politiche di respingimento già infruttuose, rendendo sempre più lontano e inattuabile il principio di accoglienza e solidarietà umana, sempre più difficile da tradurre in azioni concrete e con il rischio di incorrere in gravi violazioni dei diritti umani.

Se sul versante dei diritti umani e della protezione internazionale le criticità sono molteplici, l’accordo in questione appare svantaggioso sul versante economico, Infatti gli artt. 4, 6, 8,10 e 12, del protocollo, ribadiscono, con chiarezza, che tutti i costi e gli oneri sono esclusivamente a carico dell’Italia. Insomma, si tratta di un accordo insensato, dispendioso, che investe sulla detenzione e ignora gli obblighi sovranazionali del soccorso in mare. Un accordo che tenta di nascondere il vero problema, ovvero, la ridiscussione e la riforma dei parametri circa le politiche migratorie in Europa sancite dal trattato “Dublino3”.

Sara Corsini e Rosario Scognamiglio

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