Hans Schadee, Paolo Segatti e Cristiano Vezzoni hanno scritto un bel testo dal titolo L’apocalisse della democrazia italiana. Alle origini di due terremoti elettorali, appena uscito per Il Mulino. Un titolo dove, è bene chiarirlo, apocalisse è inteso in senso etimologico come scoperta, disvelamento. La chiave esplicativa fondamentale è che non siano cambiati in modo radicale i punti di vista degli elettori sulle policies, al massimo ne sia cambiato il grado di importanza, ma che piuttosto sia crollata l’autorevolezza, la capacità a risolvere i problemi, delle due forze su cui si era fondato il secondo sistema dei partiti, Pd e Forza Italia. Gli elettori, a un certo punto, sulla base di questi “fattori di repulsione” (pag. 12), hanno quindi preferito «un salto nel buio» (pag. 10). È calata la “reputazione” del partito prima votato (pag. 148) più di quanto non siano cambiate le proprie specifiche opinioni.

In particolare l’apparizione sul lato dell’offerta del M5s ha consentito di calamitare lì i voti dei delusi, superando la difficoltà preesistente a cambiare campo tra centrodestra e centrosinistra che bloccava gran parte dell’elettorato (pagg. 20 e 101). Un muro che di per sé sarebbe invece “ancora ben presente” (pag. 60). Il M5s ha quindi avuto successo perché ciascuno, uscendo dal proprio partito, vi ha voluto vedere le cose più simili alle proprie opinioni. Il M5s, come sostenuto da Kriesi, avrebbe avuto successo come «un partito populista di centro» raccogliendo elettori moderati sulle policies, ma radicali contro il funzionamento della democrazia rappresentativa (pag. 151). I due passaggi che hanno inciso sono stati nel 2011 la caduta del Governo Berlusconi con i partiti ancora impreparati a presentare un’alternativa e che hanno finito per delegare la gestione della fase solo a un governo tecnico, una confessione di impotenza ben più forte che non una Grande Coalizione esplicita, e poi il passaggio del referendum costituzionale, avvenuto mentre il debole miglioramento dell’economia non spostava la rassegnazione dell’elettorato rispetto all’incapacità delle forze politiche di cambiare effettivamente la situazione (pagg. 60 e 121) e che quindi in sostanza fu soprattutto un giudizio sul governo e prescindere dal merito (pag. 138). Il salto nel buio è andato a chi (Lega, M5s) era non casualmente rimasto all’opposizione in tutto il periodo considerato (pag. 122).

Il Volume presenta poi un bel capitolo (il settimo) sulle contestazioni alla democrazia rappresentativa, convergenti, ma diverse. Mentre nell’ottica del M5s il problema è rappresentato dall’eccessiva autonomia degli eletti, in quella della Lega il nodo è l’eccesso di influenza delle élites. Nel primo caso, quindi, la soluzione è l’innesto di forme di democrazia diretta, mentre nel secondo è la delega plebiscitaria al leader (pag. 123). Nonostante tutti i limiti dei partiti e della democrazia rappresentativa, e i possibili correttivi da introdurre, troviamo qui alcune scorciatoie che gli autori ben confutano. Queste spinte, e in particolare la prima, tendono a veicolare l’immagine che, al netto degli eletti e delle élites, i cittadini di per sé tenderebbero a pensarla allo stesso modo, sottovalutando i conflitti reali nella società. È un’idea distorta che sulla scia di Hibbling e Morse gli autori definiscono “democrazia invisibile” o “impolitica” (pag. 155).

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