Circolano video dell’orrore. Sparsi, a pezzi, stanno su Telegram, qualcuno addirittura su TikTok. Su quel social network che era nato per filmare i balletti degli adolescenti, poi diventato vettore un po’ di tutto, la musica è cambiata con il 7 ottobre. Con l’attacco di Hamas al cuore del nostro mondo, falcidiato a colpi di Kalashnikov, non si balla più. Come non si balla più in quel fazzoletto di deserto in cui i giovani israeliani, spensierati e disarmati, quel giorno invocavano amore e libertà. Gli hanno risposto calandosi dal cielo come angeli della morte, i terroristi con le GoPro. Avevano il grilletto premuto e il recording acceso: volevano spargere terrore ai quattro venti. E hanno filmato la loro barbarie: la disumanità antropomorfa diventata video killer. Adesso che si possono trovare, al cronista non rimane che guardarli. Ed è come guardare dentro al buco nero in cui la spirale della mostruosità ha gettato questi odiatori seriali della vita. L’IDF ha raccolto alcune di quelle immagini senza filtro e le ha messe in sequenza. Alcune decine tra le centinaia di clip a disposizione di questo archivio del male. Bastano e avanzano. In un primo piano sequenza i terroristi si filmano tra loro, per darsi una identità di fronte al pubblico. Scherzano, perfino: qualcuno ammette – come in un rito iniziatico – l’imbarazzo misto a eccitazione: “È la prima volta che ammazzo degli Ebrei”, si sente dire uno.

Assassini senza storia e senza futuro. Poi parlano i corpi distesi nel loro sangue e grida il silenzio dei senza vita. Uomini e donne di tutte le età e come abbiamo appreso poi, di tutte le nazionalità. Di molti si indugia sulle ferite, frutto di percosse. Lesioni da arma da fuoco, direbbe la perizia di un coroner. Fori di proiettili esplosi hanno bucato le carni da parte a parte. Mitragliatrici pesanti, non pistole. Esseri umani come target da poligono di tiro, riversi gli uni sugli altri. Alcuni in un ultimo abbraccio, come una nipotina con la nonna, come tra le ceneri di quel gigantesco monumento funebre che è Pompei. Ci tocca guardare. Il corpo di un uomo è a terra, in un appartamento. Deve essere all’interno di un kibbutz. L’uomo non si muove: è già morto, è ferito, è solo privo di sensi? Non lo sappiamo. Ma vediamo un killer di Hamas che prende la mira con una zappa nell’intento di staccare la testa dal corpo. Mira al collo in una, due, tre riprese. È maldestro. Quella testa non sembra volersi staccare, il collo è armato da una colonna vertebrale che il miliziano di Hamas non sembrava aver previsto. Fatica un po’, prima di riuscire a decapitarlo. Poi si vedono altri che infieriscono sui cadaveri. E sui resti dei cadaveri. Molti sono bruciati. Uno prende una testa mollemente attaccata a un corpo e si accanisce sugli occhi, che intanto non ci sono più. Va sulle cavità orbitali con un pugnale, con il manico di un bastone. E fa per accertarsi che dietro a quei fori non ci sia più qualcosa che possa guardare. O guardarlo, occhi negli occhi. Si vedono anime dannate che si compiacciono e si incoraggiano a vicenda. Accatastano i corpi in un salone, forse per prenderli in una foto-ricordo finale, tutti insieme, come per concludere una festa. I terroristi provano a non sporcarsi con il sangue, ma è difficile. Ci tocca guardare ancora. Arrivano le immagini dei bambini. Assassinati uno a uno. Alcuni erano in fasce. Uno è carbonizzato, ma le dimensioni del corpicino non lasciano dubbi. Un altro è intero, o quasi. Hanno provato a decapitare anche lui, ma della testa hanno portato via solo una metà. Un lato. Il corpo giace con il cervello fuori dalla scatola cranica. Hamas è entrata dai varchi del confine con armi da fuoco ed esplosivi, ha dovuto ricorrere agli attrezzi trovati nei kibbutz per tagliare le teste: vanghe, pale e zappe. Del tutto imprecise, inadatte. Questa operazione terroristica era partita con i droni e gli alianti ed è finita da cavernicoli, con l’abiezione più grande dell’infanticidio dei tagliagole.

Abbiamo dovuto guardare questo video perché molte di queste immagini in Italia non si possono trasmettere, né pubblicare. È stato come fare quattro passi nell’inferno. La loro diffusione in Israele è sconsigliata per il largo pubblico ma raccomandata agli addetti ai lavori. Le autorità dello Stato ebraico non vogliono impressionare l’opinione pubblica oltre misura. Farci vivere nel terrore è quel che i terroristi sperano, quel che più intimamente desiderano a monte di questi attacchi. Guardarlo è ripugnante e rivoltante, per noi che seguiamo l’attualità mediorientale dall’Italia, chi più, chi meno distaccato. Ma se a guardarlo è il pubblico israeliano, è un terremoto dell’anima. È uno sconquasso dei sensi pari forse a cento volte le immagini dell’11 settembre. Perché Israele è poco più grande della Toscana. Meno popolato della Lombardia. E’ una comunità nazionale fatta di famiglie intrecciate in rapporti di parentela, amicizia, comune esperienza nell’esercito o all’università: avendo ucciso 1300 persone, in quei sei gradi di separazione che in Israele diventano tutt’al più due, si può dire che quasi tutti i cittadini israeliani oggi siano stati colpiti da un lutto nella cerchia delle conoscenze, o abbiano conosciuto alcuni dei feriti o dei sequestrati che nel frattempo – col precisarsi dei numeri degli scomparsi – sembrano essere verosimilmente duecento.

I video sono stati girati da Hamas come parte integrante dell’operazione e da loro caricati sulle piattaforme online. L’obiettivo è chiaro, minare alla base la sicurezza degli israeliani di vivere in pace a Sderot, una città di 27mila abitanti al confine con la West Bank, e più in generale in Israele. “La strategia del terrore è mettere paura, far scappare il nemico, ucciderlo e dove non è possibile, continuare a minacciare di ucciderlo”, dice al Riformista una autorevole fonte. “Per il resto è chiaro che non esiste una strategia geopolitica, se non nell’immediatezza”. E sulla geopolitica si proietta il monito di Joe Biden, all’arrivo in Israele: “Non fate come noi, con gli errori che abbiamo compiuto dopo l’11 settembre”. Le autorevoli fonti che consultiamo annuiscono: “E’ un buon consiglio. Israele non vuole avventurarsi in un règime change senza avere un piano per il dopo”. Significa che sradicato Hamas, bisognerà capire se l’Autorità Nazionale Palestinese, la Lega Araba, l’Egitto vorranno dire la loro su Gaza, città aperta. Permeando in modo strutturato e costante le fondamenta di una nuova coabitazione pacifica e civile con il vicino di casa israeliano. “Abbiamo un obiettivo a breve termine: eliminare la minaccia di Hamas dalla striscia di Gaza e favorire la nascita di una rappresentanza più democratica dei palestinesi che hanno tutto il diritto di vivere lì, e in pace. Tornando a lavorare in Israele come abbiamo sempre voluto, e riportando i loro guadagni a casa ogni sera”.

La diplomazia lavora alacremente, il progetto dell’invasione di terra, boots on the ground, non è più la prima opzione sul tavolo. Si tenteranno altre strade. Si ascolteranno tutte le campane. Ma sradicare Hamas non sarà facile: successi ce ne sono stati ma la testa dell’organizzazione potrebbe essersi messa al sicuro per tempo. Prevedendo la risposta di Israele alcuni dei capi sono ben nascosti all’estero. Dove? La nostra fonte lo sa, ma non lo dice. In Libano, qualcuno. Altri più al riparo. “Dovete seguire i soldi, il flusso del denaro che andava ad Hamas. Da quei conti si capiscono molte cose”, ci viene detto. “Esiste una filiera”, una nebulosa di sigle e di associazioni che sui miliardi di aiuti umanitari internazionali diretti negli ultimi dieci anni a Gaza ha fatto, viene lasciato intuire, qualche patto col diavolo. D’altronde ci sono macchine ben oliate. “Quella della disinformazione è la più precisa. Un razzo devasta il parcheggio vicino all’ospedale di Gaza, non si capisce niente, le intelligence di tutto il Medio Oriente si attivano per ottenere un focus dai satelliti e cosa accade? Che diciotto minuti dopo l’esplosione esce una nota stampa subito tradotta in inglese: 500 vittime, ecco tutti i dettagli del missile israeliano”. La nostra fonte torna alle immagini di cui parlavamo all’inizio. “Noi siamo stati colpiti il 7 ottobre e ancora non possiamo dire con certezza quante sono state le vittime. Ci sono dispersi, il numero non è ancora definitivo. Secondo voi in diciotto minuti si può far gridare da tutte le televisioni una notizia del genere?”. Una indagine internazionale guidata da osservatori Onu sarà sul campo per verificare le responsabilità, ma “Abbiamo dato le prove della presenza dietro l’ospedale di una batteria di razzi della Jihad Islamica”. In tutte le guerre la verità figura tra le prime vittime. Chi ha la fortuna di averla, tenga la testa ben salda sulle spalle.

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.