Addio boomers, ora al lavoro è il turno della Generazione Z. Si è parlato tanto (troppo) del conflitto generazionale, di come boomers e GenZ fossero incompatibili (apparentemente), di come i primi guardino con sospetto i secondi e di come i secondi si sentono incompresi dai primi (sbagliando entrambi). Ma ora arriva il cambio della guardia. Emerge da una ricerca di Glassdoor, società che raccoglie feedback da dipendenti ed ex dipendenti sulle imprese per offrire più trasparenza e strumenti per una scelta consapevole, e che periodicamente rilascia insight sul mondo del lavoro, sulle tendenze e i principali cambiamenti che avverranno nel 2024. La ricerca è limitata al mercato del lavoro statunitense, ma i numeri italiani non si discostano più di tanto.

Il prossimo anno sarà l’anno in cui la Generazione Z supererà nel numero di lavoratori i baby boomers. Un cambio epocale, destinato a cambiare aziende e politiche. I boomers, cioè i nati nel Secondo dopoguerra (l’epoca del boom economico, appunto, e da qua il nome) sono stati la generazione dominante dagli anni ‘70 fino a dopo il 2010, quando hanno lasciato il testimone ai Millennial, nati tra gli anni ‘80 e ‘90.
Il passaggio tra Boomers e Millennials non è stato né traumatico né ha portato a grandi scossoni nelle politiche del lavoro, nel modo di fare hiring o di trattenere i talenti in azienda. I motivi sono principalmente due: una sostanziale similitudine tra le due generazioni e ragioni esterne. I Millennials hanno preso il sopravvento negli anni di diverse crisi economiche e sociali (senza esserne la causa, va detto): dai mutui subprime a recessioni economiche, dalla pandemia all’11 settembre, dalla guerra in Ucraina all’inflazione alle stelle. Questo ha portato imprese e lavoratori ad affrontare sfide e temi “esterni”, senza troppo concentrarsi su come rivoluzionare o cambiare l’interno. In più, Boomers e Millennials sono molto simili in alcuni tratti: molto propensi a intendere la possibile carriera solo come un percorso verticale, danno grande importanza al salario e alle qualifiche, sono poco propensi a cambi continui di aziende, che spesso sono motivati solo e soltanto da una crescita economica. Chi scrive fa parte di questa generazione e seppur non si veda in tutto e seppur un’opinione non sia statistica, può confermare che siamo così.

Diverso è il tema quando confrontiamo Boomers e Generazione Z e quando i secondi diventano molti di più: troppe le differenze per non pensare che ci possano essere – e che ci debbano essere – dei grandi cambiamenti. Senza semplificare troppo, la GenZ cambia il paradigma con cui intende il lavoro, con cui lo approccia, cosa ricerca e cosa la motiva. Il salario non è più il motivo principale per cui si lavora: anzi, molti ragazzi accettano anche stipendi più bassi rispetto alle aspettative. Ad occhi chiusi? No, sia chiaro, non è una generazione di disperati: è una valutazione complessiva dove il reddito è solo una parte, valutata insieme alla flessibilità, alla formazione ricevuta, alle politiche di crescita, ai valori dell’azienda. Il salario dev’essere però sempre equo (dovrebbe esserlo sempre, per tutti) e viene messo in relazione con le attività svolte e le responsabilità. Ma viene data grande importanza alla possibilità di lavorare in smart (smart significa intelligente, non semplice lavoro da casa mezza giornata alla settimana…), alla formazione che un’azienda eroga verso le proprie persone (non solo verticale sulle attività che la persona deve svolgere ma anche su temi diversi e lontani delle proprie responsabilità), ai valori che un’azienda comunica fuori e poi promuove internamente (avete presente le aziende che colorano il logo arcobaleno per un giorno all’anno e poi discriminano indistintamente le proprie persone? Ecco).