Per gentile concessione dell’autore e dell’editore, pubblichiamo qui di seguito uno stralcio de “La forza della fragilità”, nuovo saggio di monsignor Vincenzo Paglia, pubblicato da Laterza, disponibile in tutte le librerie fisiche e digitali già dal 17 febbraio.

L’archeologo americano Ralph Solecki, dopo aver scoperto in Iraq lo scheletro di un uomo neanderthaliano che mostra segni di gravi disabilità, ritiene che la fragilità sia nel cuore stesso dell’evoluzione. La sua esclusione dal gruppo era sentita già da allora insopportabile: se ne son presi cura. Questa scelta, contraria all’utilità dell’evoluzione semplicemente biologica, spinge ad una riflessione più attenta sulla fragilità come fonte di solidarietà. (…). Tra i capitoli più drammatici dei primi mesi della pandemia in Italia rimangono le rivolte esplose in diverse carceri (terribile, in particolare, quanto successo nel penitenziario di Santa Maria Capua Vetere, su cui è in corso un processo per tortura e maltrattamenti da parte di membri dell’amministrazione penitenziaria). Credo che queste rivolte non siano state comprese nel loro significato più profondo.

Si è parlato infatti di paura del contagio da coronavirus e di proteste dovute alla sospensione dei colloqui, ma c’è, a mio avviso, dell’altro, qualcosa di più radicale. Lo sappiamo bene: la società è un organismo collegato e quanto accade da un lato si ripercuote su un altro. Le carceri sono la cartina al tornasole dell’effettivo esercizio della giustizia, della «giustizia della giustizia» per usare un bisticcio di parole, ma efficace. Quanto accade nella società civile in generale ha ripercussioni profonde nel mondo carcerario, come ben sanno quanti si occupano professionalmente delle condizioni di vita dei detenuti. Annunciare un’amnistia e non realizzarla provoca sommosse in quel mondo chiuso dove è profonda la risonanza di ogni evento. La paura del contagio da coronavirus esiste nella società civile italiana al punto che tutto il paese è «zona rossa». E le carceri? Le dimentichiamo? I detenuti stanno lì a ricordare la loro esistenza proprio nei momenti in cui non vorremmo vederli. Gli invisibili diventano visibili in maniera evidente e drammatica. Si può davvero pensare di limitare o cancellare le visite dei parenti senza che una misura del genere provochi conseguenze? In una situazione di privazione della libertà, dove le relazioni umane sono l’unico legame con «di fuori», si possono cancellare con un tratto di penna in nome della sicurezza e della salute? Possibile che non si pensi alle conseguenze di un isolamento che diventa doppio: carcerati due volte, esclusi dalla società e dalle relazioni con le famiglie? Il Covid-19 ha in realtà fatto emergere le contraddizioni delle carceri italiane a partire dal loro sovraffollamento: la pandemia ha colto gli istituti penitenziari al 130% della loro capienza, 10.200 persone in più. (…)

Che fare? La cultura giuridica italiana ha – avrebbe – tutti gli elementi per rispondere se fosse capace di tenere alta l’attenzione sulle carceri. Prendo un solo dato dalla relazione al Parlamento del Garante nazionale delle persone private di libertà del 21 giugno del 2021, il quale rileva l’accentuarsi di una «attenuazione» della cultura che vede proprio nel «graduale accesso alle misure alternative un elemento di forza nella costruzione di un percorso verso il reinserimento». Già: il reinserimento. Chi se ne preoccupa più? Eppure è il vero e reale cuore della problematica, collegato al dovere che ha lo Stato di prendersi carico dei detenuti stessi, persone con percorsi e vissuti certamente difficili. A loro va data certezza nel mantenimento delle relazioni interpersonali e soprattutto speranza. Sì: speranza nel futuro per arginare ansia, depressione, disperazione, sentimenti destinati a sfociare in suicidi e rivolte.

L’universo carcerario ci fa rimbalzare – se vogliamo ben vedere – una domanda su chi siamo noi, come società tutta intera. Non posso non citare quel passaggio in cui Gesù spiega ai discepoli come comportarsi: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi. Allora i giusti gli risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito? E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti? Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25, 35-40). Queste parole ci parlano dell’importanza di quella solidarietà fatta di rapporti umani. Raccontano di un mondo «interconnesso» già all’epoca della Palestina di Gesù. Le frasi del Vangelo proseguono e prolungano una tradizione religiosa, civile, giuridica, umana – pensiamo ai Dieci Comandamenti – in cui è sempre al centro il rapporto di ognuno di noi con Dio e con gli altri, con l’intera società. (…)

Le carceri sono la cartina al tornasole della capacità da parte della società di esercitare una vera giustizia, dove la velocità del giudizio e la certezza della pena si coniugano con misure sagacemente pensate per recuperare le persone e reinserirle nella società. Lo snodo essenziale è la relazione: tutti sono protagonisti, dagli operatori dell’amministrazione alle famiglie dei detenuti, agli stessi detenuti. Vale per tutti e anche nelle carceri: isolamento non deve voler dire solitudine. Già dall’inizio della Bibbia c’è scritto: «Non è bene che l’uomo sia solo» (Gen 2, 18-24). Trovare e investire risorse sulla formazione degli operatori, sul potenziamento del volontariato, sugli strumenti tecnologici che possano consentire ai detenuti di studiare e acquisire professionalità e per reinserirli nel mercato del lavoro una volta scontata la pena non sono misure utili «solo» al carcere. Sono misure che dicono quale futuro c’è in programma per tutti noi. (…)

È urgente riprendere la vita dopo un trauma; ed è anche difficile, soprattutto se siamo chiamati a vivere in una condizione di rischio pandemico. Abbiamo comunque davanti a noi il compito delicato e necessario di riprendere a vivere. Riconoscere la lezione della fragilità che la pandemia ci ha tragicamente svelato non è la premessa per ripartire, è la ripartenza stessa.