Negli Stati Uniti è in corso un repulisti che somiglia a una purga staliniana: un numero crescente di impiegati statali federali hanno ricevuto fra il 27 e il 28 gennaio una e-mail che li invitava a riempire una scatola con gli effetti personali e andarsene a casa. Oltre che licenziati in tronco, i burocrati ritenuti inutili e dannosi da Elon Musk, hanno perso anche l’assicurazione sanitaria pagata dallo Stato, cosa che ha creato una delle situazioni più angosciose della vita americana: ovvero quando i dipendenti si fanno pagare dai propri datori di lavoro l’assistenza sanitaria con una compagnia privata, che perdono di punto in bianco, insieme all’apparecchio per i denti del figlio.

Per ora non si tratta di tutti gli impiegati statali ma soltanto di quelli di Usaid, l’agenzia di aiuti all’estero, che erogava somme consistenti ma con forme che sfuggono al controllo del governo: elargizioni per scopi culturali o sanitari o di generica ricerca. Tutti i dipendenti dell’Usaid per Trump, e il suo perfido ministro Elon Musk, sono dissipatori di pubbliche risorse e vanno cacciati. Secondo l’Economist gli americani sono felicissimi di queste purghe purché avvengano in Stati diversi dal proprio. Il New York Times ospita la triste storia di decine di casi di onesti dirigenti, donne e uomini, devastati da ciò che in una democrazia è l’equivalente di un colpo alla nuca ai tempi di Stalin. Ma il clima politico è favorevole al decisionismo eliminatorio di Trump anche nelle forme più spietate.

Il Presidente dimostra di voler fare quel che ha promesso: agisce da monarca e inaspettatamente ha preteso il suo trono anche nella cultura facendosi incoronare Presidente del prestigiosissimo istituto per le arti “Kennedy Center”, intitolato nel 1964 al famoso presidente ucciso a Dallas, di cui sono stati cacciati tutti i democratici nominati da Biden. Nel consiglio d’Amministrazione. Lui dice: “È finito il bipartitismo per colpa loro, perché i democratici hanno cercato sempre di eliminarmi per via giudiziaria anziché battermi politicamente. Alla fine, ho vinto io e adesso loro imparano la lezione di Robespierre: chi fa la rivoluzione a metà, scava la propria fossa.

Il “Kennedy Center” di New York è una istituzione di altissimo livello artistico, al livello, per prestigio, della Biennale di Venezia. Mercoledì Trump si è insediato come presidente e ha assicurato: “Faremo grandi cose. Cose così grandi che non ne avete nemmeno l’idea”.
E poi ha insediato con voto favorevole del Senato degli Stati Uniti Tulsi Gabbard, una bruna quarantenne ex democratica, a capo di tutte le agenzie di intelligence americane: Cia, Dia e Fbi comprese. Chi è la Gabbard? É un personaggio molto interessante e molto imitato. Fa parte del mondo militare e, benché sia stata per anni una parlamentare democratica, è ancora in sevizio attivo. É la rappresentante di un mondo femminile americano che sta scalando le gerarchie militari più alte, dopo aver passato 22 anni nel servizio attivo in zona di combattimento.

Da tener d’occhio perché più o meno la riposta di destra al femminismo e al lobbismo Lgbtq. Al suprematismo maschile si risponde facendo quanto di più maschile esista: il combattimento in uniforme con alti gradi sulla manica e sul petto. Ma, attenzione, la Gabbard faceva parte della leva democratica, non repubblicana. Diventò repubblicana e poi trumpiana soltanto quando venne in contatto col “deep State”, lo Stato dei servizi segreti e di tutto ciò che non si deve dire, ascoltare e diffondere. Quella parte dello Stato che spesso è in conflitto con lo Stato formale. La conversione di Tulsi avvenne sulla via di Damasco. Era in uniforme in Siria ed entrò in contatto con i servizi segreti del tiranno Assad – da poco abbattuto e che era a sua volta sostenuto dalla Russia e dai suoi militari – che la portarono davvero a Damasco per conoscere il dittatore da cui non rimase troppo disgustata.

Intorno a Assad c’era una piccola folla di russi: militari, diplomatici, spie, giornalisti e doppiogiochisti. Fu ammessa nel circolo, trattata come un possibile asset di grande interesse e messa in contatto con Vladimir Putin. Entrò a far così parte di quel crescente numero di americani ostili a proseguire sempre e comunque la guerra fredda, convinti di dover avere con Mosca rapporti migliori da giocare se possibile contro Pechino. L’Unione Europea e i suoi singoli Stati in questa partita trumpiana non appaiono nemmeno nell’elenco delle comparse, disprezzati sia da Putin che da Trump, il quale sempre più si circonda (Tulsi è l’ultima) di personale politico e militare favorevole a far sfebbrare la Russia sia dai deliri imperiali che dalla sindrome dell’accerchiamento.

Da dieci anni va raccogliendo intorno a sé l’élite che si allontana dai democrats proprio su questo punto decisivo: il raffreddamento dei punti roventi e dolenti con la Russia, quale che sia il suo regime. I democratici, da Kennedy a Biden, sono sempre stati più bellicosi nei confronti di Mosca che peraltro ha nutrito l’ostilità dei democratici con le sue sciagurate avventure militari, ultima quella in Ucraina.

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.