Non è stato facile per i movimenti femministi far in modo che esperienze essenziali dell’umano, come la sessualità, la maternità, i legami affettivi, non fossero catalogati come “questioni eticamente sensibili”, ma neppure ridotti a “questione di diritti”, orientamento prevalente di una sinistra che non aveva, quanto a problematiche del corpo, una visione propria da contrapporre all’integralismo cattolico. Far riconoscere la politicità della vita personale, la sua appartenenza da sempre alla storia e alla cultura dominante, e quindi segnata da rapporti di potere, sfruttamento e violenza -che per le donne ha voluto dire negazione e alienazione del loro io profondo-, è stata la sfida di una rivoluzione che chiedeva cambiamenti radicali dell’ordine esistente.

Che posto hanno avuto in questo percorso lento e pieno di ostacoli leggi e diritti, riconoscimenti giuridici e istituzionali? Quanto hanno pesato le “aporie della democrazia” per cui –come scriveva Giorgio Agamben– “la conquista di diritti, libertà” diventano fatalmente “iscrizione crescente dei corpi e delle vite nell’ordine statuale?”. È una domanda che è tornata oggi di attualità nel dibattito che riguarda la proposta di Legge Zan, approdata alla Camera il 3 agosto. Alla richiesta originaria avanzata dal movimento lesbico, gay e trans di un allargamento della Legge Mancino alle discriminazioni legate all’orientamento e alla identità sessuale, si è aggiunta in un secondo tempo la misoginia. Che le violenze contro le donne siano la struttura portante dell’ordine patriarcale, che ha posto come normativa l’eterosessualità, e considerato “naturale” fondamento della famiglia la coppia uomo e donna, stigmatizzando perciò come “anormali” tutti i soggetti e i comportamenti che non vi si riconoscono, dovrebbe essere una consapevolezza acquisita, così come il fatto che stiamo parlando di un fenomeno che non si risolve con le leggi ma con pratiche politiche adeguate al suo duraturo radicamento nelle esperienze di singoli e della comunità. Dell’ambiguo rapporto tra il corpo e la legge sono comparse tracce nella seduta parlamentare del 3 agosto in alcuni interventi delle deputate della maggioranza.

«Le donne –ha detto Laura Boldrini- sono all’apice della piramide dell’odio, lo stesso odio che colpisce chi mette in discussione la cultura patriarcale, come le persone Lgbtq». Ciò non toglie che, in questo accostamento e come aggiunta a posteriori, la misoginia rischi di collocare le donne tra le minoranze da tutelare, e di fare del rapporto con gli altri soggetti, nominati dalla legge nelle loro specificità, soltanto «la somma algebrica di identità sociali differenti, certificata -come scrive Ida Dominijanni su Internazionale (3/8/20) sulla base di identità teoriche e giuridiche, piuttosto che come una costruzione politica basata su pratiche condivise».

Prima fra tutte la pratica del partire da sé. “Effetti collaterali” –scrive sempre Dominijanni- di questa categorizzazione, che potrebbe moltiplicarsi -come si è visto nella discussione parlamentare, fino a includere come comportamenti da sanzionare e tutelare l’aspetto fisico, estetico, condizioni sociali ed economiche-, sono, per un verso, la segmentazione identitaria, l’accentuazione di divergenze interne alla galassia femminista e lgbtq+, e per l’altro, l’opportunità offerta alla destra di evocare il pericolo della ideologia gender, di una invasione gay e trans contro la famiglia “normale”. Per evitare questa deriva, una soluzione possibile avrebbe potuto essere quella di non introdurre “norme antidiscriminatorie riferite a specifiche categorie di soggetti, e rafforzare principi e norme di carattere generale”. In sostanza, come suggeriva lo stesso presidente della Corte costituzionale, Cesare Mirabelli, “lasciare immutata la Legge Mancino e introdurre nell’articolo 61 del codice penale, oltre ai motivi futili e abbietti, un’altra aggravante per atti lesivi della persona, senza altre specificazioni”.

Sull’indeterminatezza delle categorie di sesso e genere, sul rischio di fare leggi specifiche difficilmente applicabili, creando “categorie di persone in senso proprio e radicare differenze invece di promuovere l’uguaglianza”, sono tornati a più riprese i parlamentari dell’opposizione, ed era chiaro che il fine, per altro dichiarato, era quello di rimettere al centro la “persona”, gli “individui”, “non distinguibili per sesso, razza, etnia, religione, difendere valori, come la famiglia “naturale”, considerati a loro volta a rischio, come se non fossero stati da sempre i pilastri del potere patriarcale. Anche trascurando il capovolgimento delle parti, tra la vittima e l’aggressore, a cui ci ha abituato da tempo la politica, resta l’interrogativo se nominare e dare riconoscimento giuridico a soggetti lgbtq+, fatti oggetto di violenza e discriminazioni “per quello che sono”, non diversamente dalle donne, significhi un allargamento delle teorie e pratiche del femminismo o una svolta destinata a creare divisioni e scontri frontali.

Al centro delle divergenze c’è il rapporto tra sesso e genere, un tema che ha attraversato più o meno esplicitamente il percorso del movimento delle donne fin dagli anni 70, e che l’esperienza dei trans –di chi non si riconosce nel sesso di nascita- ha reso ancora più problematico, in quanto richiesta che a essere riconosciuta anche giuridicamente sia l’ “identità di genere”. Non c’è dubbio che, insieme all’orientamento sessuale che ha portato sulla scena soggetti finora invisibili –costretti a nascondersi e vergognarsi-, gay e lesbiche, sono soprattutto le minoranze trans a intaccare più profondamente il determinismo biologico che sta alla base della differenziazione tra i sessi, la presunta “naturalità” degli attributi del maschile e del femminile, e dell’istituzione famigliare.

Le trasformazioni che sono avvenute, sia pure lentamente, nel tessuto sociale e culturale del nostro paese, si può dire che hanno fatto il loro ingresso nel dibattito parlamentare proprio perché si è usciti dalla genericità del concetto di “persona”nominando, tra le altre “differenze” -sesso, etnia, razza, religione, ecc.- , quelle che più radicalmente possono sovvertire l’ordine patriarcale. Stupisce che nel dibattito che si è aperto all’interno del movimento delle donne, che per altro non è mai stato un “noi”, un“soggetto politico”, ma un pluralità di voci, sia stata così poco nominata la rete Non Una Di Meno, che, per la ricerca di nessi tra le molteplici “identità” di cui sono fatte le nostre vite, si definisce a livello globale femminista e trans femminista, segnalando in questo modo quanto molteplice e contraddittorio sia il radicamento culturale e politico del patriarcato.