Caro Direttore, nel farLe molti auguri per l’avventura che l’attende, Le auguro davvero di poter raccontare la vicenda italiana (non solo quella asfittica delle stanze romane) con uno sguardo nuovo, senza dare per persa l’opzione riformista del visibile, per rivedere molte cose senza troppo tener conto di quanto già previsto, in una opzione gradualista – integralmente riformista, e non puerilmente massimalista di presunta destra o presunta sinistra – che non prevede e non si rifugia nei troppi già-detti del nostro panorama. Le auguro di poter mantenere gli occhi aperti per cercare un po’ di ossigeno (guardare il mondo dalla nostra finestra di casa non è come guardare la propria finestra di casa dal mondo: è questione di scala, e di aria fuoricampo) e raccontare uno spazio inesplorato, forse in ombra o complesso, un perimetro comunque ristretto, che sfugge all’impostura intellettuale delle supercazzole senza sensi e senza corpo, ai ricatti dell’industria culturale degli stereotipi.

In questi giorni si parla molto di American Fiction; ecco, sarebbe divertente leggere sul suo giornale episodi di una Italian Fiction, sulle ossessioni identitarie, sulla riduzione del dibattito a gag (monologhi privati e sordi in assenza di opinione pubblica muta: e la nominiamo ancora al singolare, come se ne esistesse una, una lingua di comunità e non solo dialetti di sette e condomini), a una polarizzazione, in un singolare esercizio di intolleranza e pensiero bipolare sempre in nome della tolleranza dell’altro (che è però solo un di sé, raramente da sé). Le auguro solo di non essere accusato di “non essere abbastanza inclusivo”, nello sfuggire al ricatto degli opposti pseudo radicalismi. Sarebbe davvero bello essere profondamente inclusivi, senza dimenticare di includere il senso del ridicolo però. C’è un confine invisibile tra pensiero sottile e pensiero esile. A volte sembra che la lingua che parliamo non ha più un ancoraggio lì fuori, un tessuto connettivo che la supporti. Dialetti da tinello più che salotti, lingue locali che si pensano globali, slogan roboanti in rumoroso disordine, cacofonia. Il divorzio fra le parole e le cose porta con sé una grande stanchezza, e forse a una pericolosa afasia. Che è ciò che corrode le comunità, altro che lingue taglienti o malintese (le parole sono sì armi, ma anche sogni).

Pensare che correggere o irreggimentare le parole porti a un intervento radicale sul reale mi pare un po’ puerile, e forse anche politicamente insensato. Le parole non sono che una rappresentazione, una manifestazione e una convenzione, ma non ci rappresentano. Non necessariamente. In un esilarante numero da vaudeville Groucho e Harpo Marx avevano già messo in scena le varie tribù nostrane che si confrontano allo specchio dei social (un ecosistema che si autoalimenta di ego, un egosistema: tutte chiacchiere neanche tanto distintive, condite da sicumera tutta burina, nominalismo assertivo da parvenu, volto a richiamare l’attenzione senza mai trattenere un senso). In La guerra lampo dei fratelli Marx, Harpo, vestito come Groucho, finge (o crede) di essere il riflesso di quest’ultimo, compiendo ogni suo movimento o mossa alla perfezione, finché in un crescendo di surrealtà si scambiano di posizione… Alla fine entra in scena pure Chico, un terzo identico, che si scontra con entrambi. Nonsense in purezza. Pochi spazi sono al sicuro dal vaudeville quotidiano, si assiste sconfortati al ricatto sistematico “di qua o di là”, tra opzioni chiaramente confuse e pensieri iperbolici (da iperbolla), la polarità tra gorgheggi di nature che non esistono (tutto è cultura, e allora possiamo nominarci infinitamente, essere puerilmente infinito, e tutto è autodeterminabile: le risposte saranno anche dentro di te, ma guzzantianamente sbagliate), oppure parole d’ordine su una natura che è un solo destino (del delirio da bar in fondo a destra, che un tempo pre-social veniva liquidato con spallucce, senza ululati al lupo del regime o radiodrammi da operetta, “fa il bravo, si è fatto tardi zio, è il momento di tornare a casa”…). Non è vero che non si può dire nulla, come gli echi queruli di ogni parte ripetono (è una sciocchezza, non c’è un regime che silenzia le parole, anzi, è il contrario: le amplifica e distorce, frolla, radicalizza, irrigidisce), ma, come nel cinema primitivo non erano i film a essere muti, semmai gli spettatori a essere sordi. Due poli presunti e autoconvocati, che si definiscono a vicenda. E si annullano. Una gag malinconica, appunto.

Ogni conato di dialogo diventa monologo a specchio su potere, oppressione, privilegio: le microaggressioni di cui saremmo quotidianamente incosciente veicolo, la lingua che ci parla e turba e ci rende violenti e ancestralmente responsabili, le scuse necessarie o esibite in quanto portatori insani e inconsapevoli di razzismo, violenza, sopraffazione. Le auguro di ospitare nel suo giornale riformista parole (e sensi, e direzioni, e significati, e esperienze: tutti e cinque i sensi, insomma), parole non polarizzate e con ampia latitudine, parole non piatte come patacche, non schiacciate come purè insipido dal ricatto dell’appartenenza, dell’ossessione identitaria, della semplificazione. Perché la libertà di immaginazione è sacrosanta (e solo banale chi ne fa l’elogio), ma c’è una grande differenza tra immaginazione e allucinazione.

Buon lavoro.

Ottavio Di Brizzi

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