Apparteniamo all’Europa della disumanità, quella che conta ventimila esseri umani seppelliti nelle acque torbide del mare Antico. Che cancella all’unanimità la missione Sophia perché era diventata un fattore di attrazione per i migranti, che, nonostante il nome di una bambina annegata, non aveva nulla di umano: nata per distruggere e disarticolare in terra africana i mezzi di trasporto di un’umanità transumante, una flotta di navi che per il solo fatto di esserci avrebbe potuto tirar su un po’ di naufraghi, in vigenza del divieto di salvazione per le Ong.

Il ministero degli esteri italiano saluta con successo la fine della missione Sophia e annuncia la nascita di una nuova missione: lo spostamento delle pattuglie europee un po’ più a est, dirimpetto alla Libia controllata da Haftar, per impedire al generale il rifornimento di armi: come a dire ai libici che dovranno scannarsi accontentandosi delle armi che gli costruiamo e arrivano via terra o via mare a ovest. Si è passati da un labile segnale di umanità a un segno tangibile di indifferenza: si anneghi fuori dagli occhi, si muoia lontano dal cuore.

E sulla terra nostra si continui a morire di fatica, si continuino a distruggere i labili segni di umanità e si consolidino le prove del cinismo. Si distruggano ad esempio gli approcci umani di Riace, distruzione perpetratasi sotto tutti i colori governativi, e si mantengano le spoglie cimiteriali delle tendopoli di San Ferdinando. C’è un mondo aperto che lasciamo ai migranti, colorato e profumato da arance, clementine, pomodori, kiwi. Ci sono i campi di cotone in cui cantare e morire per portare sulle nostre tavole beni a prezzi abbordabili. Nelle piane del Sud non si sentono più le note degli idiomi meridionali: non ci sono più le tabacchine nel Salento, le olivetane nella Piana di Gioia.

I serpenti del gelsomino sono spariti da sotto l’Etna e le gelsominaie della Locride non cantano più l’amoroso inganno al loro principe: ottomila fiori servivano per fare un chilo, le campionesse raccoglievano cinque chili per notte, quarantamila gemme bianche staccate delicatamente una a una in una fatica che andava dal tramonto a un’alba profumata di fiori e impuzzolentita dal sudore. La disumanità da noi non sparisce mai, si sposta da una schiera a un’altra per restare uguale e abbrancare la disperazione. Sophia cambia nome per restare la stessa, medesima aberrazione. In Europa ogni volta che nasce un labile segno di umanità si corre sempre al riparo per farlo diventare, correttamente, ciò che è: l’ennesimo, consueto, simbolo della disumanità di cui non vogliamo liberarci, se non per individualità che legalmente si porteranno alla sbarra.

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E' uno scrittore italiano, autore di Anime nere libro da cui è stato tratto l'omonimo film.