Il processo penale rappresenta, da sempre, il miglior punto di osservazione dei rapporti fra autorità e cittadino in un dato momento storico e non vi è indizio migliore per misurare il grado di civiltà di un popolo, come ricordava Franco Cordero. Se il sistema processuale rende immediatamente percepibile l’impronta autoritaria o liberale di un ordinamento, sulla falsariga della dicotomia fra i modelli accusatorio e inquisitorio, dalle dinamiche interne al processo si coglie ancora meglio la cifra di una democrazia. La Costituzione vorrebbe un processo di parti contrapposte e in condizioni di parità, ispirato alla fisiologica dimensione conflittuale di un rito adversary. La trasposizione normativa e, ancor di più, la prassi applicativa ci restituiscono, invece, l’immagine di un rito governato dalla tutela privilegiata concessa a tutti gli appartenenti all’apparato statuale, dal giudice al pubblico ministero per finire con la polizia giudiziaria.

I reati d’oltraggio

Per rendersi conto del preoccupante scollamento fra il dover essere costituzionale e l’essere della concreta dimensione giudiziaria, basta scorrere il massimario della Cassazione sul tema dei reati di oltraggio. Si potrebbe obiettare che le fattispecie incriminatrici affondano le loro radici in un codice penale di matrice fascista, ma quello che preoccupa maggiormente non è la loro sopravvivenza, sia pure con qualche aggiustamento, all’avvento della Repubblica, bensì la sostanziale continuità interpretativa e applicativa, del tutto insensibile ai valori costituzionali, a partire dal diritto di difesa. L’esponente dello Stato apparato gode così di una iper tutela processuale, a dispetto di quella che dovrebbe essere la normale dialettica di un confronto anche aspro nei toni, ma pur sempre ad armi pari.

Gli esempi

Per far comprendere l’esatta dimensione del problema è indispensabile portare esempi concreti tratti dalla cospicua casistica giurisprudenziale. È stata ritenuta oltraggiosa la condotta dell’imputato che, assistendo alla testimonianza del pubblico ufficiale, proferiva le frasi “è un bugiardo, è un falso”. La Cassazione ha infatti ritenuto che la scriminante dell’esercizio del diritto di difesa non copra questo atteggiamento, in quanto sarebbe del tutto estraneo all’esercizio della difesa, facendo così prevalere la tutela del pubblico ufficio sull’anelito di libertà dell’imputato.

Ancora più restrittiva è la giurisprudenza in tema di oltraggio a magistrato in udienza, laddove viene sistematicamente esclusa la scriminante di cui all’art. 393-bis c.p., ossia la reazione a un atto illegittimo. Tale giustificazione è stata esclusa, anche solo in forma putativa, in relazione alla condotta denigratoria ed aggressiva posta in essere da un avvocato nei confronti del giudice di pace che, in aula, mimando il gesto di portarsi le mani alle orecchie, aveva manifestato l’intenzione di non voler ascoltare oltre le deduzioni a sostegno di una istanza di anticipazione di udienza già decisa. Il giudice che, come le famose scimmiette, non vuole ascoltare la difesa è ancora un giudice degno di tutela penale? Ancor più difficile da comprendere è la distinzione fra la critica che investa la legittimità o l’opportunità degli atti giudiziari, come tale ipoteticamente ammessa e scriminata, e quella rivolta alla persona del magistrato. La Cassazione ha ritenuto immune da censure la condanna dell’avvocato che, tacciando di negligenza, imperizia ed ignoranza il pubblico ministero, lo aveva sarcasticamente invitato a studiare nozioni basilari del diritto. Dire a un pubblico ministero che è impreparato e che deve studiare non è forse un modo di criticarne gli atti e l’operato? Nel vero processo di parti, dove accusa e difesa sono entrambi avvocati, questa forma di critica è ammessa e rappresenta il sale della dialettica processuale. Per inciso, l’atteggiamento iper tutelante della nostra giurisprudenza dovrebbe fare riflettere sulla ineludibile necessità di cambiare l’ordinamento del pubblico ministero e di separarlo nettamente dal giudice.

Il rischio penale

Il paritetico rapporto fra le parti è schiacciato dal peso del rischio penale quando si afferma che l’oltraggio a magistrato in udienza è addirittura aggravato dalla minaccia consistente nella prospettazione di una denuncia. Si tratta di un caso in cui, allo scopo di fare desistere il pubblico ministero dal coltivare un’ipotesi di accusa ritenuta infondata, il difensore dell’indagato aveva prospettato l’esercizio di un’azione risarcitoria civile, ovvero la formalizzazione di una segnalazione finalizzata ad attivare l’azione disciplinare a suo carico.

Anche nei rapporti con il giudice non si può dire che la giurisprudenza ammetta il diritto di critica. Si è ritenuto integrato il delitto di oltraggio a magistrato in udienza nel caso di un difensore che, subito dopo la lettura della sentenza, aveva espresso davanti al collegio giudicante il proprio dissenso per la decisione adottata. In questo caso, il difensore, al termine dell’udienza di appello, aveva pubblicamente rivolto l’invito ai giudici, ovviamente in loro presenza, ad un corretto esercizio della professione: “La reformatio in peius non è prevista dal nostro ordinamento, la professione deve essere fatta con serietà da entrambe le parti”. Chi ha lamentato il vuoto di tutela dei cittadini di fronte alla pubblica amministrazione, determinato dall’abrogazione dell’abuso d’ufficio, dovrebbe preoccuparsi anche della totale assenza di tutela della difesa di fronte a chi, nel processo, rappresenta lo Stato.

Oliviero Mazza

Autore

*Professore ordinario di procedura penale