Nel 1982 la Cgil mi incaricò di una missione in America Latina. Insieme a un funzionario dell’Ufficio internazionale dovevamo visitare i principali Paesi, allora sottoposti a feroci dittature militari, per prendere contatto e portare aiuti ai movimenti sindacali d’opposizione. La missione iniziò in Cile (al tempo di Pinochet) dove era consuetudine recarsi dall’Italia per partecipare alla manifestazione del Primo Maggio promossa dalla Coordinadora Sindical (più o meno un Cln dell’opposizione dal momento che i sindacati avevano, nei fatti, un minimo di agibilità politica e organizzativa).

La presenza di un sindacalista straniero – che poi si fermava qualche giorno a Santiago per avere degli incontri – costituiva una sorta di usbergo contro le violenze della Polizia, perché il governo Pinochet non voleva grane diplomatiche (la nostra ambasciata era d’esempio nel prestare soccorso ai ricercati e nello sfidare il regime). Così svolsi indisturbato il mio comizio in una grande sala chiusa con migliaia di persone, mentre fuori vi erano scontri. La missione proseguì in Uruguay, poi in Argentina e si concluse in Brasile. Mentre in quest’ultimo grande Stato si viveva una fase di transizione verso il ripristino di libere elezioni e i militari stavano ritirandosi, l’Argentina era nel mezzo della Guerra delle Falkland (dette colà ‘’Malvinas’’).

A Buenos Aires c’era una grande confusione: ciò consentiva alle opposizioni di avere dei margini d’iniziativa nonostante che il feroce regime militare che aveva ficcato il Paese nell’avventura di una guerra con una grande potenza fosse ancora al potere. L’inflazione era esplosa, tanto che non vi era neppure il tempo di stampare nuove banconote; si accontentavano di mettere un timbro con il nuovo valore sulle vecchie. Per prendere la metropolitana occorrevano tubi ‘’prefabbricati’’ di monete e gli acquisti, anche i più banali, si facevano a suon di milioni (lo ricordiamo a chi rivendica, adesso, una liquidità sempre crescente, stampando moneta). Ma questa lunga ed estemporanea premessa serve a un altro scopo. Come ho ricordato era in corso una guerra (che poi avrebbe travolto il regime), ma nella capitale ferveva un clima di fervente patriottismo.

Bandiere nazionali dovunque, tg che elogiavano gli atti eroici della popolazione, contestazione di tutto ciò che era inglés, fatwa civile per chi esibiva o vendeva oggetti provenienti dalla Perfida Albione e quant’altro. Si capiva subito che il regime dittatoriale induceva questi comportamenti (come le adunate di massa e plaudenti a Piazza Venezia), ma sotto sotto, si coglievano anche i segnali di un’esaltazione collettiva, fagocitata dai mezzi di comunicazione, che garbatamente coinvolgeva anche gli esponenti dell’opposizione che incontravamo. Mi fermo qui, se non per dire che – mutatis mutandis e le differenze sono più che evidenti – che in questi giorni avverto in Italia quel clima tra il fasullo e l’esaltato che mi colpì tanti anni fa a Buenos Aires.

Questo almeno per quanto riguarda l’opinione pubblica. Quanto alle restrizioni – sarà pure un fenomeno mondiale – ma nessun regime autoritario era mai arrivato nel cul de sac in cui siamo finiti. Coprifuoco, confino nel Comune di residenza e caccia ai ‘’runner’’ (che, nell’odio collettivo, stanno prendendo il posto che fu degli appartenenti alla Casta, dei privilegiati, dei parlamentari e dei pensionati d’oro). Ci sono direttive che fanno accapponare la pelle. A Roma, nel week end, sono stati istituiti dei posti di blocco con l’ordine di fermare tutte le auto e controllare i motivi dello spostamento dei passeggeri. Queste e altre misure sono accompagnate da una propaganda mediatica assordante e da una retorica patriottarda insopportabile.

Abbiamo inventato il ‘’patriottismo del divano’’: la Patria, l’interesse pubblico si difendono stando a casa. I nemici del popolo sono i nostri vicini che pretendono di portare, troppe volte, il cane a soddisfare i propri bisogni fisiologici, mentre sarebbe necessario metterne in quarantena anche la vescica. Ai tempi del Duce, quando il governo promuoveva le campagne per la coltivazione del grano e trasformava i contadini in servi della gleba, le canzoni inneggiavano alla vita campestre: era bello alzarsi con il gallo, lavarsi nel ruscello (sorvolando ovviamente sui servizi igienici). Fioriscono, in questi giorni, i contributi canori alla bellezza della quarantena.

Le grandi ’penne’’ pubblicano degli elzeviri sulla riscoperta del focolare, sul piacere di sfogliare vecchi libri dimenticati o di rileggere le lettere d’amore scambiate da fidanzati con gli attuali coniugi, meglio ancora se si trovano in fondo a un cassetto le tracce di un amore lontano, magari clandestino. Per fortuna ogni tanto sullo smartphone arrivano post che ironizzano sulla situazione. Sono le nuove ‘’pasquinate’’.

In sostanza, la vera pandemia non è quella portata dal Covid-19, ma quella dovuta ad una psicosi ormai divenuta planetaria, fomentata da un’informazione distorta dei media. Capisco benissimo che incamminarsi lungo questo percorso è insidioso perché si rischia di apparire cinici fino al disprezzo della via umana. Ma non si può andare avanti così.