Sarebbe da scriverci un libro prima o poi per raccontarla per quella che è stata: una vicenda che ha sicuramente procurato ingiuste sofferenze e danni, che ha gettato in pasto delle “bestie social” legami familiari e storie personali e professionali, ma anche un caso da manuale di una campagna di disinformazione ad personam realizzata quasi alla perfezione. I fatti sono drammaticamente noti. È a sei mesi dal referendum costituzionale del 2016 che viene aperta l’inchiesta sui fondi Unicef e sparata a tutta pagina dai soliti noti quotidiani nazionali, Il Fatto Quotidiano e La Verità in primis: Andrea Conticini, il cognato di Matteo Renzi, e l’allora Presidente del Consiglio diventano quasi una persona unica nella narrazione dei quotidiani, con prime pagine e titoli di articoli sapientemente creati per unirli nel medesimo destino, in un processo in cui la sentenza di condanna è già scritta ancora prima che inizi. Dopo che poi, nel marzo 2018, un emendamento del governo guidato da Gentiloni interviene in senso garantista sul reato di appropriazione indebita, escludendo la procedibilità d’ufficio, la vicenda riconquista le prime pagine di alcuni quotidiani, con polemiche politiche durissime e titoli più che espliciti: Il Fatto arrivò a parlare di “fondi renziani tolti ai bimbi”, avendo solo la prudenza di virgolettare l’aggettivo.

Che poi, come ci spiega l’avvocato di Andrea Conticini, quella norma non influì in alcun modo sul processo e non “salvò nessuno”, come i suoi detrattori nel 2018 urlavano sarebbe accaduto, poco importa: è la verità dell’istante quella che conta. In prima fila nella politica gli immancabili grillini, con Alessandro Di Battista scatenatissimo, in compagnia dell’attuale presidente del consiglio Giorgia Meloni e del suo collega fiorentino Donzelli. Se però dalla lettura dei quotidiani dell’epoca viene fuori un quadro certamente grave, è dalla ricerca su web e su social media in particolare che si riesce a ricostruire l’ampiezza della polemica politica che ne scaturì e delle conseguenze che ebbe sull’opinione pubblica. Nel 2016 e poi nel 2018 il grosso del dibattito politico avveniva su Facebook: era su quel social network, allora privo di quei sistemi che oggi impediscono a fake-news e disinformazione di diffondersi ed a migliaia di utenti falsi di condizionare il dibattito, che si raggiungeva il grosso dell’elettorato.

Su Facebook era quello il tempo dei canali “unofficial”: pagine non riconducibili a nessuno in particolare che si occupavano di informazione ma anche di religione o di altri argomenti politicamente più neutri e che facevano milioni e milioni di interazioni parlando a una fetta consistente di elettorato: erano quelli i canali di propaganda preferiti dai 5 Stelle, ma anche dalla Lega e da Fratelli d’Italia. Fu a partire da quei canali, in larghissima parte disattivati da Facebook alla fine del decennio scorso, che si scatenò con due grosse ondate – la prima nel 2016 e la seconda nel 2018 – ma di fatto senza interruzione di sorta fino anche all’estate scorsa, una delle campagne social più forti che l’Italia abbia mai visto. La narrazione era sempre quella, perché era quella più falsa ma anche più efficace: Andrea Conticini e quindi Matteo Renzi avrebbero di fatto rubato soldi ai bambini africani. Ancora oggi, spulciando con banalissime chiavi di ricerca Facebook, alcuni di quei contenuti ritornano a galla: non parliamo solo dei video e dei post di Meloni, Donzelli, Di Battista e molti altri, ma soprattutto dei contenuti totalmente diffamatori che circolavano su quei canali. Arriviamo così al 2023 ed alla richiesta di assoluzione dell’altro ieri nel processo a Firenze. Tre sono le pagine alla vicenda dedicati dalla stampa: tutte e tre toscani. Sì, perché in rassegna stampa nazionale ne ha parlato solo Il Fatto Quotidiano. Con un minuscolo trafiletto.

Giornalista, genovese di nascita e toscano di adozione, romano dai tempi del referendum costituzionale del 2016, fondatore e poi a lungo direttore di Gay.it, è esperto di digitale e social media. È stato anche responsabile della comunicazione digitale del Partito Democratico e di Italia Viva