Mai come quando gli eventi precipitano su un crinale distruttivo e senza ritorno, quando la violenza bussa alle nostre porte e l’aggressività dei sistemi autocratici minaccia e scuote dalle fondamenta l’edificio della civiltà europea. Mai come in questi momenti la storia chiama a rapporto la filosofia, chiedendole conto delle ragioni di ciò che accade e dell’incerto futuro che ci attende. Ed è singolare che a farsi carico della risposta, quanto più lo scenario si fa fosco e ostile, siano stati filosofi giunti in età molto avanzata, eppure capaci di spingere il loro sguardo – senza timori e tentennamenti – nel grumo più oscuro di quelle tenebre.

Lo fece, nell’imperversare dell’ultima guerra, Benedetto Croce; e basti pensare a quel magnifico “Soliloquio di un vecchio filosofo” (1942), con la messa in discussione, nello sforzo gigantesco di riordinare un “reale” ormai indecifrabile, del suo stesso sistema dei “distinti”, e l’introduzione tra le categorie di quella che – con felice metafora – egli stesso battezzò come “cruda e verde vitalità”. Lo ha fatto più di recente, nel pieno dispiegarsi della protervia putiniana sul cuore dell’Europa, l’altro “grande vecchio” della filosofia napoletana, Biagio de Giovanni, con uno sforzo altrettanto potente e solitario, nel suo “Figure di apocalisse. La potenza del negativo nella storia d’Europa” (il Mulino, 2022).

D’altra parte, di bocci tardivi, per così dire, la produzione di de Giovanni abbonda come poche altre: una riflessione, la sua, tra le più originali del nostro tempo, e che tuttavia non si acquieta con il trascorrere degli anni, ma che si intensifica nell’ultimo decennio, in senso sempre più problematico, sempre più svincolato da ogni residua finalità accademica. Così già, quantomeno, a partire dal suo splendido “Elogio della sovranità politica” (Editoriale scientifica, 2015): risposta “inattuale” e polemica alle pretese neutralizzanti di un astratto costituzionalismo, all’idea che il trionfo dei diritti dell’uomo debba affermarsi passando per la sterilizzazione di ogni potere costituente, per l’archiviazione, appunto, della sovranità politica. Per finire non a caso, dopo il vertiginoso corpo a corpo tra “Kelsen e Schmitt” (Editoriale scientifica, 2018), a “Libertà e vitalità. Benedetto Croce e la crisi della coscienza europea” (il Mulino, 2018), con un atto di giustizia (era ora!) verso l’ideatore dell’Estetica, il cui pensiero ci viene restituito, nella percezione angosciosa di una “finis Europae”, in tutta la sua tragica grandezza.
Europa, dunque.

“Il continente della libertà e dei diritti umani, così raccontata da tanti, è, insieme, il continente nel quale la patria di Beethoven e di Goethe ha prodotto Auschwitz”, scrive l’autore. Come è possibile ciò? Da cosa nasce questa contraddizione, all’apparenza inspiegabile? Qual è il nostro atteggiamento, la nostra postura culturale verso la storia e il pensiero di “Europa”, verso i sentieri splendidi ma anche scivolosi del suo oscillante destino? È dentro questa contraddizione che scava il pensiero di de Giovanni, in un andirivieni continuo tra passato e presente, tra radici ed attualità, ripercorrendo – senza alcun intento storiografico, ma con un fitto gioco di analessi e prolessi narrative e con una sbalorditiva freschezza di linguaggio – le figure di Europa: dalla sua prima autorappresentazione, resa possibile dal sorgere della filosofia in Grecia, fino alla catastrofe dei conflitti mondiali. Una storia avvincente e drammatica, dispiegatasi, come in nessun’altra civiltà, intorno a un protagonista d’eccezione: la potenza del negativo, che appare e scompare, affiora o si inabissa, ma comunque occupa lo sfondo del proscenio, pronta a riemergere con violenza a ogni tentativo di isolamento o neutralizzazione. È per questo che la mediazione tra uno e molteplice, inaugurata da Platone e culminata nella sintesi hegeliana di storia e filosofia, appare come inizio e fine di un percorso dialettico inesausto e mai pacificato, cui corrispondono gli infiniti conflitti che accompagnano la storia d’Europa, che sono a essa consustanziali per la sua stessa “natura”, e che trovano, tuttavia, nella sintesi del filosofo di Stoccarda, il loro punto di massima stabilizzazione.

Ma cosa avviene dopo Hegel? Siamo di fronte davvero a una “fine della storia”, o a un suo transito verso un altrove, come lo stesso Hegel, in una lettura meno semplificante del suo pensiero fatta da de Giovanni, sembra prospettare? Di certo, dopo di lui, qualcosa si infrange irrimediabilmente. Da Marx a Nietzsche il Negativo non si lascia più imbrigliare, volgendosi tutt’al più in un millenarismo messianico, o nel suo corrispettivo: il nichilismo. In ogni caso siamo di fronte all’insorgere non di un generico irrazionalismo, altra categoria di comodo rifiutata dall’autore, ma alla “crisi della mediazione nella quale aveva sperato e si era esaurito il grande lascito di Hegel”. E che, peraltro, non tocca solo la filosofia, ma si irradia, nel racconto di de Giovanni, anche in campi extrafilosofici: dalla destrutturazione del romanzo a opera anzitutto di Joyce, agli sconvolgimenti nel campo delle teorie scientifiche ad opera di Einstein ed Heisenberg. Siamo, in ogni caso, anche alla vigilia della “Grande trasformazione”, cioè all’irrompere delle masse sulla scena della storia e con esse al “violento piegamento della storia d’Europa verso totalitarismi di diversa origine e con diverse finalità”. L’Apocalisse è alle porte, insomma. E non si farà attendere: il Negativo, rimasto solo, scatenerà di lì a poco la propria furia distruttrice.

E poi? Poi l’Europa cala il sipario su quella immane tragedia. E anche de Giovanni, nell’ultimo, intenso capitolo (“l’Occidente ami sé stesso”), molla tutti gli ormeggi del retroterra filosofico, e si avventura, senza scialuppe di salvataggio, nell’alto mare aperto del destino d’Europa. Se di destino si può ancora parlare. Perché qui l’autore non protende a nessuna verità definitiva, né all’indicazione di un approdo sicuro, ma prova solo – con lo sforzo eroico e commovente del suo pensiero – a navigare tra i flutti impetuosi delle aporie del nostro tempo, a squarciare il velo delle nostre nuove e rassicuranti certezze o delle facili, troppo facili autosvalutazioni dei nostri primati.

Così mentre da una parte si sottolinea lo sforzo straordinario dell’Europa per innalzare sulle macerie della guerra i vessilli conservati negli suoi archivi (costituzioni, diritti, democrazie, libertà, conquiste talora troppo disinvoltamente disprezzate), dall’altra si ammonisce contro quel costituzionalismo astratto che pretende di affermare se stesso, di garantire i diritti dell’uomo, ma sterilizzando ogni potere costituente, da cui pure quelle conquiste sono nate (tema già centrale nell’“Elogio della sovranità politica”). Questa Europa, dunque, senza una adeguata strutturazione politica potrà reggere all’urto del mondo? Non rischia di essere inghiottita dal ricordo di sé stessa? Interrogativo angoscioso, a cui ne segue un altro ancora più drammatico.

Perché se l’età del trionfo della tecnica, quella che ci è dato di vivere, sembra consegnare agli archivi della storia d’Europa anche il confronto/scontro tra Hegel e Nietzsche-Heidegger, in nome di una forza omologante che non ammette altro linguaggio che il proprio, vi è ancora spazio per un destino di Europa come destino di libertà? Se la ricchezza di Europa è stata sempre la ricchezza dei suoi linguaggi molteplici e polifonici, eternamente conflittuali, che spazio c’è per questa identità nella unificazione globalizzante della tecnica? O, per giungere al nodo cruciale della questione, non sono piuttosto i sistemi autocratici e totalitari quelli in cui il conflitto interno è azzerato e ciò che conta è solo la forza della decisione, a trarre il maggior beneficio da questo contesto? Ad allungare una seria ipoteca di terrore sul nostro futuro? Conclusioni provvisorie e aperte, come si può vedere, ma certo non eludibili; e che comunque non smettono di incitarci, con questo toccante testamento spirituale, a non smarrire la nostra strada.

Domenico Tuccillo

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