Se le rivoluzioni, come avvertiva Gómez Dávila, sono incubatrici di burocrati, è anche vero il contrario; la burocrazia, assai spesso, si autorappresenta come rigoglio rivoluzionario nel cui ventre dirigenti e politici ambiscono a lasciare traccia del loro passaggio.

Ogni Ministro della pubblica amministrazione negli ultimi decenni ha infatti cercato di legare il proprio nome a una qualche epocale, e appunto rivoluzionaria, riforma, modellando come morbida argilla l’organizzazione dei pubblici poteri.
E così ci siamo confrontati con un oceanico turbinio di riforme normative, innesti di istituti presi da altri ordinamenti e da altre latitudini, adeguamenti di strumenti privatistici, spesso celati dietro la cortina fumogena di asettici anglismi: la privatizzazione del pubblico impiego, cantiere perennemente aperto come una Sagrada Familia dei travet, continua inesauribile e inesorabile a dipanarsi lungo la linea d’orizzonte, portandosi dietro un carico di managerializzazione della dirigenza pubblica, public management, performance, smart working, governance della domanda, e via così di aziendalizzazione in aziendalizzazione, spesso più meramente lessicale che non davvero sostanziale.

Il bilancio, lo si intuisce agevolmente osservando il profilo della pubblica amministrazione, è in chiaroscuro.
Il 2023 poi è stato l’anno di una dolorosa epifania, di un brusco risveglio che potremmo titolare, seguendo la maggioranza della stampa che se ne è occupata, ‘fuga dal pubblico impiego’. Sorpresi, anche leggermente sconcertati, commentatori e opinionisti si sono resi conto di un fenomeno che sembra avere scarsi precedenti storici: i concorsi pubblici appaiono meno frequentati, le assunzioni più difficoltose, le rinunce abbondanti.

Ci si è interrogati a lungo, e a finire sul banco degli imputati all’inizio sono stati gli stipendi. Il salario del pubblico dipendente, si è rilevato, è scarsamente attrattivo. Certo, verissimo e giusto, ma che gli stipendi di chi lavora negli uffici pubblici fossero più bassi degli omologhi privati era verità provata anche quando in decine di migliaia si presentavano a sostenere le prove concorsuali. Queste cifre più basse sono però compensate dalla garanzia assoluta di poter godere di diritti, permessi, aspettative, oltre che dalla ferrea inamovibilità di quello che nell’immaginario collettivo continua ad essere ‘posto fisso’.

Ed allora cosa è accaduto? Meno investigata è la risultante di un insieme di fattori che tra loro uniti a partire dalla pandemia hanno ad avviso di chi scrive ingenerato questa ‘fuga’. Con la necessità pandemica di accelerare i concorsi e limitare le occasioni di presenza contestuale negli stessi spazi i concorsi sono stati ridotti a prova unica, con ausilio di mezzi informatici, leggasi tablet. Decine e decine di concorsi, tutti uguali, con le stesse materie e lo stesso iter procedurale, e naturalmente centinaia di migliaia di concorrenti. Se uno va a leggere sinotticamente le graduatorie troverà spesso gli stessi nomi e cognomi. Non si tratta di casi di omonimia, ma delle stesse persone.

E così, con la sovrapposizione anche temporale delle graduatorie, le amministrazioni si sono trovate ad assumere lavoratori che permanevano per qualche mese in un ministero, per poi ricevere la chiamata da un altro. E così via. In molti casi, questo meccanismo ha consentito una valutazione da parte dell’assumendo di quale fosse l’approdo più conveniente: migliore indennità di amministrazione, chance di progressioni verticali, prestigio, vicinanza a casa. A peggiorare la situazione le assunzioni di funzionari per il PNRR, a tempo determinato, sovrapposte ai concorsi per posti a tempo indeterminato, con una trasmigrazione prevedibile di funzionari PNRR vincitori anche di procedure a tempo indeterminato nei Ministeri. Di conseguenza, alcuni scorrimenti di graduatoria sono andati a vuoto perché le persone, semplicemente, rinunciavano avendo trovato altra sistemazione. Più che una fuga quindi, una gigantesca illusione ottica.