Oggi i minorenni non accompagnati, provenienti da ogni parte del pianeta, si chiamano Mohamed, Omar, Faris. Scappano dalle guerre africane o mediorientali, sfuggono alla miseria e alla fame, oppure vengono mandati apposta in Europa dalle famiglie affinché possano studiare, imparare la nostra lingua, trovare un lavoro e magari inviare a casa qualche soldo. Nella loro strenua volontà di sopravvivenza, incarnano un principio d’umanità universale: sono onde che battono sugli scogli. Vanno e vengono. Gli spruzzi provocati da questi ragazzi si disperdono nell’aria che respiriamo, alla maniera di un sottile pulviscolo. Anche se non ce ne rendiamo conto, ci appartengono.
Un tempo erano come Hans, protagonista di L’ombra di Berlino. Vivere con i fantasmi del Kindertransport di Jonathan Lichtenstein (Mondadori, pp. 286, 20 euro): uno dei circa diecimila bambini ebrei che, durante il nazismo, poco prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale, furono portati in salvo dalle organizzazioni umanitarie, quasi sempre in Gran Bretagna, mediante convogli speciali. Il figlio, Jonathan, sorta di Enea contemporaneo, che si prende sulle spalle il suo Anchise, racconta in questo testo, fra i più incisivi esempi della letteratura prodotta dalle cosiddette “seconde generazioni”, le quali non vissero la Shoah ma ne patiscono ancora oggi le conseguenze, il viaggio di ritorno che egli intraprese insieme all’anziano padre dal Galles, terra elettiva, alla capitale del vecchio Reich, per ripercorrere le tracce di quel trauma lontano, prima della morte del genitore.
Hans aveva dodici anni quando la madre disperata decise di affidarlo al treno della salvezza – interi vagoni di bambini singhiozzanti che, se fossero rimasti in Germania, sarebbero finiti nei campi di concentramento – pur sapendo che avrebbe potuto non rivederlo mai più. In realtà i due ebbero modo di ritrovarsi, tanti anni dopo, nella Ddr. La sorella maggiore, Toni, era riuscita a fuggire da sola in Palestina, allora protettorato inglese: nel momento in cui la nave, arrivata al largo di Giaffa, ebbe dei problemi per attraccare, non esitò a lanciarsi dal ponte nel tentativo di raggiungere la costa a nuoto. Il padre, il nonno e lo zio invece si erano suicidati. Una tragica catena. Ferite come queste non si rimarginano. Infatti il tema-fondamento del libro s’identifica sì nella storia del padre, pronto a rifarsi una nuova vita in Inghilterra, medico apprezzato e militare in Malesya dove conobbe la moglie, ma si espande poi con potenza terrificante in quella del figlio, incapace di accettare e comprendere gli imbarazzati silenzi e la muta rabbia di chi lo aveva fatto nascere.
Se adottiamo questa chiave di lettura, le scene più strazianti della narrazione, prima ancora che le visite nei luoghi tedeschi, dai cimiteri, musei e memoriali berlinesi fino al lager di Sachsenhausen, dal negozio familiare preso d’assalto nella famigerata Notte dei Cristalli, in via di ristrutturazione, alla non distante casa d’infanzia ancora presente vicino al Tiergarten, appartengono alla giovinezza di Jonathan. I suoi ricordi entrano dentro il diario di viaggio in automobile (da Harwich a Hoek van Holland in traghetto, poi tutta autostrada) come schegge incandescenti, pronte a segnare una sofferta educazione sentimentale: l’infanzia trascorsa nel silenzio e nell’introversione affrontando la più completa rimozione del passato, basti pensare alla cancellazione della lingua tedesca che non si parlò mai in famiglia. E poi le zuffe fra ragazzi coi bulli pronti ad attaccare il futuro scrittore perché ebreo, senza che lui ne capisse la ragione. Ancora non sapeva cosa aveva alle spalle. Sentiva soltanto il peso della storia: un coacervo di emozioni trattenute, violenze inenarrabili, atroci solitudini. Cosa devo fare per superare questo dolore innominabile? Come posso contrappormi al male? Nessuno te lo dirà: men che meno tuo padre. Dovrai scoprirlo da solo. A mani nude. Una volta Hans, volendo punire Jonathan per una spinta che, nella cecità adolescenziale, lui aveva dato a una sua amica seduta sul bordo della piscina, si era infuriato a tal punto da gettarlo in acqua col rischio di farlo annegare.
Crescere così non è facile, soprattutto nella giovinezza, quando stai cercando di diventare adulto. Il compito da svolgere può risultare proibitivo; bisogna riconquistare il proprio padre uccidendo i fantasmi che lo assediano: «A un certo punto, riuscii a trovare lavoro al Traliccio 83 della piattaforma petrolifera Ninian South, nel Mare del Nord… Una volta, si levò una burrasca e mi fu ordinato di arrampicarmi sulle tre rampe di scale che portavano alla piccola piattaforma della torre… Al pensiero delle foto appese alle pareti dello studio di mio padre, però, che lo ritraevano ufficiale medico dello Special Air Service, pronto a lanciarsi con il paracadute nella giungla, e sentendo la sua voce che mi incoraggiava a provarci, decisi di salire, anche se la minima scivolata avrebbe significato morte sicura…».
Non a caso il fratello Simon scomparirà nel corso di un arrischiato volo in elicottero nei dintorni di Nizza, anche lui impegnato nell’invisibile confronto col padre sopravvissuto. Come se Hans avesse depositato nei figli il desiderio di mettersi in gioco per vincere la morte, dentro e fuori se stesso, che i nazisti gli avevano inoculato. Gli eventi tragici producono contraccolpi a lunga gittata: è il motore del mondo. Raccogli il testimone che hai ricevuto e lo consegni a chi viene dopo. Alla fine del viaggio Jonathan, nato nel 1957 a Kuala Lumpur, drammaturgo pluripremiato e conosciuto, ne converrà proclamando con fierezza in quest’opera che si era tenuto dentro fino adesso come un groppo in gola: «La mia evidente fragilità lo terrorizzava tanto quanto terrorizzava me. Voleva che io fossi preparato ad affrontare non quel che sarebbe potuto succedere, bensì quel che prima o poi sarebbe sicuramente successo. Mi rendo conto di quale immenso privilegio sia essere suo figlio».
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