«Le critiche all’emendamento Costa mi paiono ingenerose ed ideologiche, e la direzione che l’emendamento indica è quella giusta. Con una metafora, è un termometro che segna la febbre, ma temo non sia in grado di curarla. Ciò detto, dobbiamo cercare di portare la riflessione su questo tema un po’ più avanti, se vogliamo uscire dal solito scontro sterile tra tifoserie». Parla Vittorio Manes, professore ordinario di diritto penale all’Alma mater di Bologna, autore di un apprezzato saggio sul tema del rapporto tra media e giustizia (Giustizia mediatica – Gli effetti perversi sui diritti fondamentali e sul giusto processo, il Mulino 2022).

Sono d’accordo con Te, proviamo a portare la riflessione un po’ più in avanti. Ma intanto, dimmi di queste critiche “ingenerose ed ideologiche”.
«Ingenerose quando parlano di “bavaglio”, perché nessun atto viene secretato, l’ordinanza resta pienamente conoscibile e divulgabile nei suoi contenuti notiziali. Ideologiche quando evocano addirittura lo spettro della giustizia di classe».
In effetti piace molto questa iperbole della difesa dei colletti bianchi, politici e imprenditori. Ma ha ancora senso questa categoria tipologica dei “white collar”?
«Non direi proprio. A parte il fatto che sono passati più di 70 anni dalla denuncia di Sutherland sulla criminalità dei colletti bianchi, e gli assetti sociali sono molto più fluidi ed obliqui. Ma soprattutto, i valori di cui stiamo parlando – presunzione di innocenza, reputazione, dignità della persona- sono diritti ubiquitari, appartengono indistintamente a tutti e sono valori primordiali per una democrazia costituzionale».

Semmai andrà invertito il ragionamento: la gogna colpisce con maggiore efficacia i soggetti più esposti socialmente.
«Certamente. La gogna è una pena asimmetrica, colpisce ed è maggiormente contundente nei confronti di chi ha un maggiore capitale reputazionale. E non c’entra niente l’appartenenza di classe, quanto semmai il livello di notorietà, che può riguardare il politico come l’influencer, l’imprenditore come il calciatore o il rapper».
Veniamo ai contenuti dell’emendamento. La direzione verso il riequilibrio tra diritto di informazione e i diritti fondamentali della persona che prima evocavi è quella giusta. Ma le stimmate di una soluzione draconiana, tranciante, le porta con sé.
«Le soluzioni chirurgiche, come sempre sono divieti e castighi, hanno questo limite. Modificano l’anatomia del soggetto, e non necessariamente risolvono la patologia. Meglio lavorare sulla fisioterapia. Ma occorre riconoscere a questo emendamento che vietare la pubblicazione testuale tenta di evitare l’effetto suggestivo che deriva dalla pubblicazione delle intercettazioni telefoniche o di alcune fonti di prova. Insomma previene giustamente quell’effetto trompe l’oeil che trasforma surrettiziamente, agli occhi del lettore, un mezzo di ricerca della prova in una prova piena di colpevolezza».
Questo è il tema centrale. L’ordinanza cautelare è una ricostruzione fattuale unilaterale dell’accusa, perché unilaterale in senso accusatorio è la selezione del materiale investigativo, la cucitura del quadro indiziario, la indicazione dei presunti riscontri della colpevolezza. La prospettazione difensiva è fisicamente inesistente.
«Certo. Dunque l’emendamento ha il pregio di prevenire la formazione del pregiudizio colpevolista che la pubblicazione di brani di un provvedimento di un giudice ad acta, adottato su una base cognitiva sommaria, parziale ed unilaterale, è inesorabilmente destinato a determinare».

Veniamo ai limiti, ora, di questo provvedimento “chirurgico”. Qual è la fisioterapia che hai in mente? Come possiamo ottenere che si comprenda che il diritto alla presunzione di innocenza, alla reputazione ed alla dignità personale non debbano più soccombere di fronte al diritto di informare e di essere informati?
«Occorre promuovere un rinnovamento culturale su questo come su altri temi in materia di giustizia. Leggo l’obiezione secondo la quale la sintesi del giornalista sarebbe, in fin dei conti, ancora più nociva della pubblicazione testuale dei contenuti dell’ordinanza cautelare. Perché invece non pensare che quel divieto possa diventare un incentivo ad una elaborazione propria del giornalista, che lo induca ad andare oltre il copia-incolla, magari ponendosi il problema della necessaria conoscenza del punto di vista difensivo? Questo mi porta al punto. Occorre ribaltare la prospettiva corrente, e comprendere che il fondamentale diritto di informare ha un effetto di over spill, di traboccamento su diritti di eguale importanza e rilevanza costituzionale, e che oggi appaiono particolarmente esposti e vulnerabili. Nessun diritto, come dice la Corte Costituzionale, può essere “tirannico” verso altri. Dobbiamo promuovere una ecologia della informazione giudiziaria, che renda consapevoli dei diritti fondamentali della persona, tutti meritevoli di essere salvaguardati. Lo abbiamo fatto con l’ambiente, lo abbiamo fatto con la circolazione stradale, e potrei fare altri esempi. L’esercizio di qualsiasi diritto, compreso quello della informazione, deve fare i conti con la propria forza contundente nei confronti di altri diritti di pari dignità. Dunque, professionalizzazione della stampa specialistica giudiziaria, rigore ed effettività della giustizia disciplinare, incentivi ai media “rights-sensitive” affidati ad autorità di garanzia. Insomma, bene la strada imboccata dall’emendamento Costa, ma nessuno si illuda che possa essere la soluzione».

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