È mia convinzione che «Exigua his tribuenda fides, qui multa loquuntur»: tante, troppe, sono le persone che parlano a vanvera su argomenti che dovrebbero essere di loro competenza, ma anche di argomenti sui quali non hanno alcuna competenza, e alle quali, pertanto, si deve prestare poca fede, proprio perché parlano molto. Questo, ahimè, m’ha sempre impedito d’associarmi al gregge di coloro che pendono adoranti dalle labbra di supponenti «vanaloquidori», magari perché benevolmente considerati abitanti del «royaume de Quinte Essance, nommée Entelechie» di rabelaisiana memoria, da irritanti, spocchiose e, talvolta, anche attempate «maestrine dalla penna rossa» o da gentleman dai volti precocemente sgualciti o su cui sono perennemente stampati sorrisi enigmatici.

Alcune sere orsono, per fare un esempio, è stato ammannito uno dei tanti esilaranti, se non fossero tragici, spettacolini a uso e consumo di lobotomizzati dagli schermi, che vedeva protagonista un notissimo archimandrita forcaiolo, dalle smodate ambizioni di carriera, inversamente proporzionali alle sue reali capacità professionali e ai suoi veri meriti. Costui esponendo, in una lingua tanto approssimativa e sgraziata da far sanguinare le orecchie, le tesi sostenute nel suo ultimo libro, scritto more solito a quattro mani con un emerito Carneade, accreditato tuttavia come «massimo esperto mondiale» di criminalità organizzata, dava chiara mostra d’ignorare come esse altro non siano che la banalizzazione, in chiave aneddotica, dei punti d’approdo di studi, condotti, quelli sì, con piglio genuinamente scientifico, risalenti alla seconda metà degli anni Ottanta e agli anni Novanta dello scorso secolo.

Fu allora, infatti, che la migliore dottrina criminologica, nazionale e internazionale, evidenziò come le specificità della mafia rispetto ad altre organizzazioni criminali fossero in genere da rinvenire, per un verso, nei legami con la politica e nel condizionamento delle istituzioni, e, per l’altro, nelle funzioni di protezione e di controllo delle attività economiche che si svolgono su un determinato territorio; come quello mafioso sia, dunque, un fenomeno che, esprimendo continuamente fatti criminali, non si identifica pienamente e semplicemente con la criminalità, né può essere assimilato tout court alla criminalità organizzata, trattandosi di una forma di questa particolare, unica nel suo genere, in quanto tendente a svolgere su un determinato territorio funzioni di regolamentazione tipiche dello Stato; come, dunque, la mafia sia una struttura criminale dotata di una particolare valenza politica, vale a dire capace di azione politica, intesa non solo come «potere, esercizio e/o detenzione di potere, bensì come ricerca del potere, azione finalizzata al potere», che si contraddistingue altresì per la capacità di radicarsi in un territorio, di disporre di notevoli risorse economiche, di controllare le attività comunitarie e di influenzare la vita politica e istituzionale a livello locale e nazionale, ricorrendo all’uso di un apparato militare, ma ricercando anche un certo grado di consenso sociale; come, finalmente, la persistenza delle mafie possa essere interpretata con la capacità di selezionare risorse specifiche per adattarsi sia nei contesti originari, sia in contesti di nuova espansione: in altri termini, come le mafie si riproducano nel tempo e nello spazio grazie alla loro capacità di accumulare e impiegare capitale sociale; come i mafiosi siano in grado di costruire e gestire reti di relazioni che si muovono e articolano in modo informale in ambiti e contesti istituzionali diversi, riuscendo a mobilitare risorse materiali e finanziarie che utilizzano per il conseguimento dei propri fini: il capitale sociale dei mafiosi, connesso alla loro capacità di networking, permette di comprendere perché essi riescono a stabilire rapporti di cooperazione e di scambio con soggetti esterni all’organizzazione.

Ed è sempre degli anni Novanta del secolo scorso, per quanto concerne specificamente le differenze organizzative delle mafie, la tesi per la quale i gruppi di ’Ndrangheta risultano più coesi e compatti rispetto a quelli di Cosa Nostra: quest’ultima è nel suo complesso più potente e ha a disposizione risorse più ampie, ma è frazionata al proprio interno, sicché, paradossalmente, in Cosa Nostra il potere è più diffuso, mentre invece la ’Ndrangheta, pur mancando di una vera e propria struttura unitaria, presenta un potere più centralizzato a livello di singola cosca e lascia minore spazio alla divisione interna. Nihil sub sole novum, dunque, ma nessuno degli interlocutori dell’archimandrita, prestato purtroppo alla letteratura, ha osato farglielo notare. Ma ben altro e di peggio è accaduto nel corso del talk show, stando alle cronache grondanti «servo encomio». Scontato, innanzi tutto, l’attacco dell’archimandrita alla riforma Cartabia: «Tutte le riforme della Giustizia che si sono succedute finora andavano bene, meno che questa. La Cartabia è di sinistra». Meno scontato, tuttavia, l’attacco sarcastico e denigratorio, nel solito italiano sgangherato, alla persona della professoressa Marta Cartabia: «forse potrebbe essere un buon capo dello Stato, meglio del ministro della Giustizia».

Imbarazzanti, poi, le dichiarazioni relative all’emergenza Covid e al trattamento da riservare ai cosiddetti no vax e no green pass: «ognuno è libero di fare ciò che vuole fino a quando non mette a rischio la libertà della collettività (…) Il governo è in ritardo, doveva essere presa una decisione più dura già in estate, impedendo a chi non è vaccinato di andare al lavoro o di accedere ad un ufficio pubblico. E io sarei anche dell’idea di fargli pagare le spese mediche in caso si ammalassero perché non puoi mettere in pericolo la vita della collettività. Bisogna essere seri e prendere provvedimenti a monte, prima dell’estate, quando si sapeva che in autunno sarebbero aumentati i contagi. Così ci troveremo chiusi a Natale». Qualcuno, forse, avrebbe dovuto ricordare all’archimandrita la Prefazione da lui stesso firmata al libro di Angelo Giorgianni e Pasquale Bacco, Strage di Stato, nel quale i due Autori (v. quarta pagina di copertina) esplicitamente enunciano: «In questo libro tratteremo di omicidi, di sequestri di persone, di violenze private. Nella consapevolezza di usare le parole come macigni» ed è già un macigno l’endiadi «Strage di Stato», riferita alla gestione sanitaria della pandemia causata dal Coronavirus.

Nessuno ha avuto, però, l’ardire di ricordare all’archimandrita la sua linea difensiva per sottrarsi alla responsabilità d’aver stilato quella prefazione, una vera e propria operazione di memoria selettiva: egli avrebbe parlato «solo» di come le mafie possono avvantaggiarsi dell’epidemia, senza affrontare né appoggiare il contenuto del libro; ma questo è solo parzialmente vero, dunque, parzialmente falso: nella seconda parte della Prefazione si appoggiano totalmente e acriticamente le tesi sostenute nel libro, secondo cui il virus sarebbe quasi innocuo, i numeri dei morti a causa di esso sarebbero gonfiati e i decessi sarebbero stati causati dai lockdown e dalle terapie dei medici in ospedale. Nessuno, insomma, ha ricordato all’archimandrita prefatore, oggi convinto fustigatore duro e puro dei no vax e no green pass, di aver definito Strage di Stato «un libro-inchiesta che ricostruisce la successione degli eventi, la fonte dei provvedimenti, le correlazioni talvolta insospettabili tra fatti e antefatti, sollevando angosciosi interrogativi (…) sulla gestione dell’emergenza pandemica»; e di essersi spinto ad aggiungere: «Nell’attenta esegesi del libro, affiora un mosaico in cui ogni tassello trova la propria collocazione. (…) Le criticità che emergono nella gestione pandemica sono state inserite in un quadro di plausibilità. Capitolo dopo capitolo, come mettono in evidenza i due autori: “Si viene così a delineare un possibile disegno in grado di riallineare ciò che solo apparentemente si profila come un’inspiegabile serie di errori ripetuti, che sono costati la vita a innumerevoli persone non solo in Italia ma nel mondo intero”».

Ma ciò che è stato più sgradevole è l’intemerata dell’archimandrita sulla manifestazione romana no vax, culminata nell’assalto alla Cgil, e sulla gestione, nell’occasione, dell’ordine pubblico: «Penso che la linea soft adottata dalla Lamorgese sulle manifestazioni no vax porterà a strumentalizzazioni e infiltrazioni. Io, ad esempio, avrei impedito di toccare un simbolo come la Cgil, anche mettendo in conto duecento feriti. Ma costi quel che costi, tu lì non arrivi perché sennò poi i gesti di violenza vengono mitizzati». Nessuno gli ha ricordato che alla manifestazione stessa aveva partecipato attivamente il magistrato Angelo Giorgianni, coautore di Strage di Stato, pesantemente sanzionato, per questo, sia pure in via cautelare, in sede disciplinare. Caritatevolmente, mi fermo qui. Chiudo, però, ricordando il topos, oscillante dall’arroganza al piagnisteo e ritorno, a cui ricorre sempre l’archimandrita de quo agitur, quando, e non certamente dagli intervistatori di fiducia, si sente messo alle strette: «Mi vogliono demolire? C’è gente che si alza la mattina e pensa a me, per diffamarmi. Ma io ho spalle larghe e i nervi d’acciaio e ricevo l’affetto di migliaia di persone». Indirizzerei volentieri all’archimandrita forcaiolo l’avvertimento di Mercurio a Sosia: «(…) si me irritassis, hodie lumbifragium hinc auferes» (Amph., 454). Ma me l’impedisce la buona educazione.

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Giusfilosofo e magistrato in pensione