Il coraggio di ribellarsi
Masih Alinejad, la donna più odiata dagli Ayatollah: “Cestiniamo l’hijab, io sono il vento tra i capelli”
E’ scampata a due attentati. Perseguitata e minacciata da Teheran, esiliata dal 2009 ha trovato protezione in America, combatte al costo della vita per i diritti delle sue compagne iraniane, la sua voce è più forte di tutto: «Non mi arrenderò, non posso permettere che vincano i terroristi»

«Ciao Anna, vivo sotto protezione della polizia federale. In un anno e mezzo ho cambiato sede otto volte. Ma rifiuto di farmi intimidire. Continuo a far sentire la mia voce di chi non l’ha più e a sostenere le donne dell’Iran. L’aggettivo sicuro per me è un lusso, ma non posso permettere che vincano i terroristi».
A parlarmi da un rifugio segreto dell’Fbi quando è quasi l’alba in Italia è Masih Alinejad, 47 anni, giornalista, scrittrice e attivista dei diritti umani. Una folta chioma di capelli ricci sempre ben in vista con un fiore spesso bianco incastonato tra le ciocche, simbolo della sua protesta pura, «per me è il simbolo dell’amore e della mia rivoluzione pacifica. Il regime ha le armi, le esecuzioni, le prigioni».
È la donna più odiata dagli Ayatollah. È scampata a due attentati. Perseguitata e minacciata da Teheran, esiliata dal 2009 ha trovato protezione in America. Nel 2019 ha intentato la causa contro la Repubblica Islamica per le vessazioni, persecuzioni psicologiche e fisiche inflitte al fratello recluso in carcere come ritorsione nei suoi confronti. La Corte federale Usa ha condannato il regime di Ali Khamenei a un risarcimento verso la carismatica attivista di oltre 3 milioni di dollari il 7 luglio scorso. È tra le 12 donne del 2023 scelte da Time per le sue battaglie d’impegno civile a favore delle ultime del mondo. Ribelle, determinata, anticonformista, è uno tsunami di idee, progetti e campagne per i diritti delle donne.
«Vediamo sempre più donne in posizioni di leadership – racconta – in Occidente, dall’Italia alla Germania (Merkel) e anche nel mondo aziendale. Le donne hanno la capacità di essere leader proprio come gli uomini. Anzi probabilmente di più».
Masih è stata la prima donna a divorziare in Iran. Ha conosciuto il carcere per le sue idee. Ha milioni di follower sui social con i quali sprona altre a cestinare il simbolo più potente del regime: l’hijab. Per questo è una delle voci più potenti del Paese. L’attivista si appella a tutte le iraniane nell’inviarle video, post, dove si tolgono il velo. La sua attività ha scatenato la rabbia direttamente del leader della Repubblica islamica, Ali Khamenei. Confluita anche in un tentativo di rapimento nel 2021. Il dipartimento di Giustizia americano ha affermato più volte che c’è una cospirazione per ucciderla. Una delle sue frasi più celebri pronunciate l’anno scorso durante un convegno nella capitale alla Fondazione Einaudi, è stato: «L’obbligo di indossare l’hijab è come il muro di Berlino: se lo facciamo cadere, l’intero sistema crollerà. Il velo credo sia uno dei pilastri principali della dittatura religiosa. Le donne sono stufe di sentirsi dire cosa indossare e quale stile di vita adottare nel XXI secolo».
Sogna il vento tra i capelli…
La sua voce squillante e gioiosa si incupisce per dire, «la settimana scorsa, un alto funzionario dell’Fbi, Richard Wells, ha testimoniato al Congresso sulle continue minacce terroristiche dell’Iran e su quanto siano desiderosi di eliminare i dissidenti come me».
Doveva essere un’intervista, ma con Masih è impossibile. È veramente una persona speciale. Il colloquio diventa amicale. Una complicità tutta femminile. È desiderosa per una volta di svelare la sua anima al mondo comprese le sue fragilità. «Sai – dice – sono stata costretta a lasciare la mia terra. È ironico che il mio paese adottivo, gli Stati Uniti, mi stia proteggendo dal mio paese natale…».
Qual è il tuo più grande desiderio?
«Tornare a casa. È il premio più grande per me! Vorrei riabbracciare forte forte la mia mamma che non vedo da 14 anni. Purtroppo non ricordo più il suo volto…».
Attimi di silenzio. Una ferita dolorosa. Per attenuare nostalgia e malinconia di cambia discorso.
Dove trovi questa forza interiore?
«Sono una combattente per i miei diritti e per quelli delle mie compagne iraniane. Ero un giornalista parlamentare nella Repubblica islamica e ho una conoscenza diretta della natura corrotta e immorale di questo regime. L’ho scritto più volte nei miei articoli denunciando tutto. Sono stata cacciata dal parlamento. Ed è iniziata la mia persecuzione. Così dieci anni fa ho iniziato la mia campagna contro il velo obbligatorio. All’epoca mi hanno deriso dicendo che il velo non era un grosso problema, che i diritti delle donne non rappresentavano una questione importante e che le donne avrebbero avuto gli stessi diritti degli uomini dopo le cosiddette questioni più grandi come la democrazia, o l’uguaglianza, o l’uguaglianza dei redditi o la pace in Medio Oriente».
Poi, cosa è accaduto?
«Ho continuato a spingere ancora e ancora. Il velo obbligatorio è un modo per soggiogare le donne, privarle della loro libertà d’azione, ridurle a semplici osservatrici in disparte. Il primo passo verso l’uguaglianza inizia con il diritto di decidere come vestirsi. Se le donne non possono scegliere liberamente cosa indossare non possono avere il controllo del proprio destino. Per dieci anni ho continuato a parlare di come questo pezzo di stoffa sia pieno del simbolismo della sottomissione. È l’ideologia dell’Isis che si scrive sui corpi delle donne. Non mi sono persa d’animo. Ho fatto pressioni a tutto il mondo, a partire dalle donne che siedono negli scranni in Europa: Germania, Francia, Italia e i Paesi Bassi, affinché non indossassero il velo quando si recano in visita ufficiale presso la Repubblica islamica».
E sei riuscita a infrangere il “tetto di vetro”?
«Beh, è arrivata la rivoluzione Women, Life Freedom e improvvisamente tutti sono stati contrari al velo obbligatorio».
Questa spirale non si è spezzata?
«Le strade in Iran sono tranquille, ma il boicottaggio di massa senza precedenti delle recenti elezioni, quando quasi il 90% non ha votato, dimostra quanto sia impopolare il regime. Ma non si è spezzata».
In Italia, una tragedia recente ha creato oltre al dolore lo sgomento. Si tratta di Vida Shahvalad, una ragazza iraniana, che sognava un grande amore e una laurea a Caserta in Data Analytics, asfissiata insieme al fidanzato dal gas dell’auto dove erano insieme. L’Ambasciata di Teheran, sembrerebbe che abbia assunto inizialmente una posizione incresciosa, quella di non rimpatriare la salma, perché “peccatrice”. Poi ha smentito.
«La situazione della povera Vida Shahvalad è tragica ma è la realtà. Ogni giorno migliaia di donne iraniane vengono tormentate, infastidite, interrogate o arrestate dalla polizia morale perché ciò che indossano è ritenuto inappropriato. Non hanno libertà d’azione, secondo il regime. Se si trovano in un garage appartato, allora c’è qualcosa che non va, per l’autocratica Repubblica islamica, perché nella loro mente uomini e donne non possono stare soli insieme. Com’è possibile che un regime possa trattare così male le donne? Mi ha spezzato il cuore questa tragica storia».
Guerre: Ucraina, Russia, Israele, Hamas, Striscia di Gaza. C’è un collante per te?
«La Repubblica islamica ha fornito sia a Vladimir Putin che ad Hamas droni e missili balistici. Il più grande sponsor del terrorismo è complice della guerra nel cuore dell’Europa e responsabile di gran parte dello spargimento di sangue in Medio Oriente. Siamo nel mezzo di una guerra contro la democrazia e la civiltà occidentale, salvo il fatto che si tratta di una guerra unilaterale. Una parte non crede ancora che sia stata dichiarata una guerra. La resistenza pacifica non funziona quando una parte è intenzionata a spazzarti via e non rispetta i diritti umani, il processo legale o qualsiasi norma e trattato. c’è una guerra in corso, non possiamo restare a guardare ed essere neutrali. Dobbiamo scegliere da che parte stare. Scelgo la democrazia. Nelle democrazie sono possibili proteste pacifiche. Le proteste pacifiche non sono possibili nelle dittature in cui vi sono pesanti repressioni. Posso aggiungere un concetto importante per quanto riguarda l’Iran?».
Certo…
«Dal 2009, ci sono stati almeno 4 grandi movimenti di protesta a livello nazionale contro la Repubblica islamica e ogni volta il regime ha prevalso con un uso schiacciante della forza contro la propria popolazione. Ho documentato casi di madri che hanno perso i loro figli e figlie uccisi durante le proteste. Molte altre ferite e tante incarcerate. La resistenza civile pacifica è l’unica opzione che abbiamo. Abbiamo vinto la battaglia per i cuori e le menti. Abbiamo vinto le discussioni morali e intellettuali. Tutto ciò di cui ha bisogno è una scintilla per la prossima rivolta».
Masih Alinejad, chi è allo specchio?
«Quando ho momenti di sconforto penso a quante persone hanno perso la vita durante le proteste, donne come Kowsar, una ventenne a cui hanno sparato direttamente in faccia. Ma lei non si arrenderà e finché le donne in Iran saranno in prima linea, è lì che mi troverete».
Hai quasi 10 milioni di follower sui social, che usi come mezzo di rivendicazione per la libertà dei diritti umani. Dove vuoi arrivare?
«Piuttosto che essere triste e lamentarmi della sfortuna delle donne iraniane, voglio fare qualcosa. Ho lanciato una nuova campagna, Uniti contro l’apartheid di genere, in cui sto raccogliendo prove da presentare alle Nazioni Unite per dichiarare la discriminazione subita dalle donne in Iran e Afghanistan come “apartheid di genere” e trattarla come un crimine. La mancata criminalizzazione di queste azioni assicura l’impunità dei responsabili, abbandonando così le vittime al loro destino. Ciò significa che queste vessazioni criminali saranno ancora praticate contro decine di milioni di donne iraniane e afghane. Secondo il diritto internazionale, il regime di apartheid in Sud Africa, dove discriminava in base alla razza e al colore, era considerato un’impresa criminale. Ora voglio che i talebani e la Repubblica islamica siano dichiarati praticanti dell’apartheid di genere e criminali contro l’umanità in quanto tali ai sensi del diritto internazionale. È un processo lungo ma sono risoluta e determinata».
Non hai risposto a chi è Masih allo specchio…
«Sono il vento tra i capelli…»
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