Ha partecipato alle stragi del ‘92 e del ‘93 (ma nessuno l’ha visto), non poteva non sapere della “trattativa” Stato-mafia (ma non c’è la prova che sapesse), ha fondato il partito “Sicilia Libera” ed è stato quasi il fondatore di Forza Italia. Ecco a voi Matteo Messina Denaro, latitante dal 1993, condannato all’ergastolo, nelle motivazioni della corte d’assise di Caltanissetta. Un bel lavoro di fotocopie durato dieci mesi dalla sentenza dell’ottobre 2020.

Se Cosa Nostra è morta ma le sopravvive l’Antimafia, questa qualcosa dovrà ben fare. Qualcuno potrà non crederci, perché secondo l’Associazione Nazionale magistrati i nostri giudici sono i più laboriosi e i più veloci del mondo, ma alcuni processi per le stragi mafiose dei primi anni Novanta sono ancora in corso. Tanto che nell’ottobre dell’anno scorso è stato condannato all’ergastolo per le uccisioni di Falcone e Borsellino il boss latitante Matteo Messina Denaro. E nei giorni scorsi sono state depositate le motivazioni della sentenza. Se dieci mesi per scrivere una sentenza a qualcuno dovessero sembrare tanti, forse troppi, lo tacitiamo subito, quell’ignorante. Perché dimostrerebbe di non sapere che questi giudici, proprio come i loro colleghi pm, non sono chiamati solo a esaminare i fatti, ma a scrivere e riscrivere la Storia del Paese.

Non solo le stragi di mafia, dunque, ma anche quel doppio binario, nato nella mente di personaggi come Ingroia e Di Matteo, con cui i Corleonesi negli anni Novanta diedero l’assalto allo Stato: con le bombe e con la Trattativa, che ormai si scrive con la maiuscola. Non importa il fatto che tutto l’impianto del processo su un presunto accordo tra Totò Riina e apparati statali si sia squagliato come neve al sole dopo il proscioglimento definitivo di Calogero Mannino, che era il perno di tutta l’inchiesta. Il fatto è che, con una paranoica coazione a ripetere, tutta l’Antimafia schierata continua a procedere come se il processo Mannino fosse stato solo un piccolo incidente di percorso, pulviscolo da spazzare via sotto il tappeto. Così i magistrati della Corte d’assise di Caltanissetta che hanno giudicato Messina Denaro hanno potuto svolgere il proprio compito senza dubbio alcuno, non ti curar di lor ma guarda e passa.

Il boss di Castelvetrano è ricercato dal 1993. Essendo latitante e non avendo un avvocato di fiducia a difenderlo, è un bersaglio facile. Basta attribuirgli ogni nefandezza e poi avere la strada in discesa, sia detto senza che si offendano i vari difensori d’ufficio che si sono alternati nei vari processi a sua difesa. Così, solo per limitarci ai casi più gravi, Messina Denaro è già stato condannato, come sempre in contumacia, abitudine molto italiana, per le bombe del 1993, quelle di Milano e Firenze. Mancavano all’appello quelle che, oltre a essere gravissime e sanguinose, sono diventate anche simboliche. Le stragi di Capaci e di via D’Amelio, simboli della ferocia dei corleonesi così come dei clamorosi errori dei pubblici ministeri dell’antimafia, quelli che hanno costruito e poi sposato le chiacchiere del falso pentito Scarantino. I flop dell’antimafia militante, per cui stiamo ancora nelle aule di tribunale per fatti di trent’anni fa.

Perché viene condannato il latitante-contumace-senza avvocato di fiducia Messina Denaro? Forse per aver partecipato alle esecuzioni di Falcone e Borsellino? Difficile provarlo, non lo ha visto nessuno. Ma può esser stato tra gli organizzatori delle due stragi, anzi, visto che non è stato mai catturato e non può esser presente ai processi in cui è imputato, possiamo tranquillamente affermare che sia stato lui l’Organizzatore. E allora Riina, il capo dei corleonesi, che cosa faceva, il portaborse? I giudici della Corte d’assise di Caltanissetta che ha condannato Messina Denaro all’ergastolo paiono avere le idee chiare sul suo ruolo: «Condivise in pieno l’oggetto e la portata del piano criminale di Riina di attacco allo Stato e di destabilizzazione delle sue istituzioni allo scopo, da un canto, di colpire i nemici storici, gli inaffidabili e i traditori di Cosa Nostra, dall’altro canto, di entrare in contatto con nuovi referenti con cui trattare per giungere a un nuovo equilibrio». “Condivise”, quindi ergastolo.

La genesi del primo delitto, l’omicidio di Falcone, sarebbe stata pura vendetta dopo che le condanne del maxiprocesso erano diventate definitive con la sentenza di Cassazione del gennaio 1991. Su questo i conti tornano. Anche se tornano un po’ meno, quando si legge che sarebbe stata organizzata una spedizione a Roma, la “missione romana”, cioè “un commando diretto da Messina Denaro e Giuseppe Graviano”, che avrebbero avuto il compito di assassinare “Giovanni Falcone e in alternativa il ministro Martelli o il giornalista Maurizio Costanzo”. Cioè, se abbiamo ben capito, il boss dei boss Totò Riina avrebbe spedito due picciotti a Roma perché ammazzassero qualcuno, un magistrato o un ministro o un giornalista a scelta, purché corresse un po’ di sangue. Come finì la spedizione ce lo dice la storia, dal momento che in quei giorni nessuno dei tre fu ucciso.

Ma ancora più singolari ci paiono le motivazioni sulla partecipazione di Messina Denaro alla famosa “trattativa”, cioè l’accordo tra i corleonesi e importanti apparati dello Stato, quello per cui le stragi sarebbero cessate in cambio di qualche derubricazione dei regimi 41 bis cui erano sottoposti i boss mafiosi in carcere. «Anche a non voler credere che Messina Denaro fosse a conoscenza di tutti gli snodi e i particolari della Trattativa (con la T maiuscola, ndr) –scrivono i giudici- il boss trapanese fu presente proprio alla riunione avvenuta a Mazara del Vallo subito dopo la strage di via D’Amelio, riunione dove Riina comunicò che le richieste contenute nel Papello (con la P maiuscola, ndr) erano state ritenute esose».

Ricapitolando: una persona, non importa se mafioso o candido giglio, è stata condannata all’ergastolo per stragi cui non avrebbe a quanto pare partecipato e perché non poteva non sapere della “trattativa” tra lo Stato e la mafia, “l’altra faccia della medaglia del piano stragista”. Poteva mancare, ciliegiona sulla torta, il ruolo politico di Messina Denaro? Non manca, tranquilli. A lui sarebbe stato affidato anche il compito di costruire un partito, «un progetto politico autonomista, indipendentista-secessionista di Sicilia-Libera», una sorta di “proiezione” di Cosa Nostra. Ma poi, va da sé, «maturò in Cosa Nostra un ulteriore cambio di rotta, ritenendo più proficuo appoggiare tramite la figura di Marcello Dell’Utri il nuovo partito di Forza Italia…». Che dire? Per fare fotocopie forse sarebbero stati sufficienti dieci giorni invece che dieci mesi.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.