Alla ricostruzione di Report che ha romanzato la “Trattativa Stato-mafia” seguono le risposte, circostanziate e documentate, che abbiamo raccolto insieme con gli avvocati Basilio Milio e Francesco Antonio Romito. I due legali sono impegnati a Palermo nel processo di appello a tutela del Generale Mario Mori e del Colonnello Giuseppe De Donno.

Ieri ci siamo occupati delle posizioni di Mori e delle dichiarazioni di Claudio Martelli. Ma nella trasmissione andata in onda su Rai Tre sono tante, e forse troppe, le sviste, le disattenzioni e le omissioni. Oggi diamo conto delle affermazioni del colonnello dei carabinieri Michele Riccio. È un teste chiave perché è con lui che ha iniziato a collaborare Ilardo, il capomafia della provincia di Caltanissetta, che viene ucciso in un agguato mafioso a inizio collaborazione. Ilardo avrebbe però fatto in tempo a fargli balenare due cose: per un verso il coinvolgimento dei servizi segreti in una serie di omicidi eseguiti da Cosa nostra, per l’altro la possibilità di catturare Bernardo Provenzano. Nel montaggio televisivo l’audio di Riccio suona accusatorio. Domanda l’intervistatore: «Ad un certo punto Ilardo, e arriviamo al 31 di ottobre del 1995, le fa intendere che c’è la possibilità di arrestare Bernardo Provenzano. Cosa accade?». Risponde Riccio: «Io chiamo subito Roma, telefono subito al Col. Mori. Lo sento piuttosto freddo…». E l’intervistatore: «Oggi lei di cosa è convinto?». Risposta: «Che non hanno voluto prenderlo». «E perché non hanno voluto prenderlo?». Riccio: «Il compito di Provenzano era di portare un’organizzazione omogenea a supportare l’attività politica di Forza Italia. (…) Era più importante che rimanesse fuori».

Tralasciando altre affermazioni di Riccio le cui smentite si ritrovano nella sentenza che ha assolto il generale Mori ed il colonnello Obinu dall’accusa di non aver voluto catturare Provenzano (Sentenza Tribunale Palermo n. 4035/2013), e ricordando che il latitante fu arrestato l’11 aprile 2006 quando in carica c’era il Governo guidato da Forza Italia, le smentite alle affermazioni di Riccio circa l’omicidio di Ilardo quale omicidio di Stato, arrivano ancora una volta dalle sentenze definitive. Perché i giudici di Palermo prima verbalizzano con stupore che il colonnello Riccio ha negato fino all’ultimo la matrice mafiosa dell’omicidio Ilardo, dicendosene incredulo. E poi si è visto a sua volta non creduto dai magistrati: «L’errore di valutazione del Riccio, che aveva la responsabilità esclusiva della gestione dell’Ilardo, rende comprensibile che egli abbia voluto rimuovere ogni possibilità che il confidente fosse rimasto ucciso da mano mafiosa, sforzandosi di profilare oscure trame istituzionali, suggerite dalla oggettiva coincidenza dell’omicidio con l’imminente inizio della collaborazione formale del predetto ed avvalorate da alcune, piuttosto ardite (quale quella che vedrebbe Andreotti e Martelli mandanti della strage di Capaci), indicazioni sulle rivelazioni che sarebbero state fatte dal predetto in merito ad avvenimenti quanto mai eclatanti e a personaggi assai in vista» (Sentenza Tribunale di Palermo, Sez. IV penale, n. 4035/2013, p. 1140-1141).

Il sospetto è che la palla calciata in tribuna – chiamando in causa l’iperbole della Spectre – sia dovuta al malcelato senso di colpa dell’ufficiale. Il Tribunale di Palermo in effetti ha osservato: «Va considerato che il predetto Riccio era in qualche modo responsabile della incolumità dell’Ilardo e delle notizie comunicate a mezzo della sua collaborazione confidenziale: se nel corso della stessa collaborazione il confidente, come era sospettato dai magistrati catanesi, aveva commesso gravi reati e se era stato ucciso, qualche rilievo contro il Riccio poteva essere mosso» (Sentenza Tribunale di Palermo, Sez. IV penale, n. 4035/2013, p. 1110). Aggiungendo una glossa assai eloquente: «E, sia detto per inciso, la prospettazione insistita di una matrice non mafiosa dell’omicidio poteva essere funzionale a preservare il Riccio da possibili critiche». Se poi si fossero interpellati i difensori, Report avrebbe scoperto che tali valutazioni sono state condivise dalla Corte di Assise di Catania che ha processato i mafiosi assassini di Ilardo. Quei giudici, in merito all’ipotizzato coinvolgimento di esponenti istituzionali nell’omicidio Ilardo, hanno scritto che «non è stato infatti accertato chi mise Provenzano e Madonia al corrente del tradimento di Ilardo (non può, per le ragioni già evidenziate, darsi credito alle dichiarazioni rese da Giuffrè solo nel 2014, circa un possibile tradimento da parte dei vertici del Ros dell’epoca)» (Sentenza Corte di Assise di Catania n. 13/2019, p. 115). Quanto all’assunto del colonnello Riccio secondo cui Mori e il Ros non hanno voluto catturare Provenzano il 31 ottobre del 1995 a Mezzojuso, ai legali di Mori e De Donno basta citare la testimonianza di Giuseppe Pignatone, magistrato che veniva costantemente informato da Riccio su ogni evoluzione del suo rapporto con Ilardo, riportata nella sentenza del Tribunale di Palermo. Egli, sentito al processo a carico di Mori e Obinu ha riferito che, il giorno dopo, ossia l’ 1 novembre 1995, Riccio si recò da lui in Procura ma non gli disse che Ilardo aveva incontrato Provenzano, bensì che aveva incontrato un mafioso di Bagheria, tale Nicola Greco il quale era uomo di Provenzano. Il magistrato ha aggiunto «quello che ricordo con certezza è che non si è mai parlato di un incontro con Provenzano a Mezzojuso nei termini diciamo oramai noti, questo è pacifico che se ci fosse stato da fare qualcosa l’avremmo fatta».

Confidenze di Borsellino a proposito del generale Subranni
Anche su tale tema la consultazione delle sentenze passate in giudicato, del tutto ignorate dalla redazione di Report, avrebbero garantito un’informazione più completa. La trasmissione, invece, ritiene di informare dando voce al giudice Di Matteo che tira in ballo il generale Subranni, del quale la moglie di Borsellino, la signora Agnese, disse di aver raccolto dal marito confidenze amare. Ecco le parole del magistrato nel montaggio di Report: «Proprio in quel periodo era iniziata la trattativa tra i Carabinieri e Riina, intermediata da Ciancimino. Ci sono molti elementi da approfondire ulteriormente ma che fanno ritenere che Paolo Borsellino avesse iniziato a capire quello che stava accadendo. E da questo punto di vista si possono spiegare anche le sue clamorose esternazioni fatte quattro giorni prima della strage di via D’Amelio alla moglie, signora Agnese, nel momento in cui Paolo Borsellino parlò in termini estremamente negativi e con un atteggiamento che la signora Agnese definisce sconvolto del suo ex amico generale Subranni, il capo del Ros adesso condannato in primo grado anche per la trattativa». (minuti 1.05.30 e seguenti). Gli avvocati Milio e Romito sollevano alcuni rilievi. «Nonostante il dottor Di Matteo ben conosca quei documenti perché acquisiti in entrambi i processi in cui ha rappresentato l’accusa (quello sulla presunta trattativa tra Stato e mafia e quello a carico di Mori e di Obinu), dispiace rilevare come non ne abbia citato fedelmente il contenuto. Ma soprattutto, un servizio pubblico aveva il dovere di dar conto correttamente di quanto affermato dalla moglie del dottor Borsellino». Torniamo alle carte, senza ulteriori commenti. Interrogata dalla Procura di Caltanissetta, la signora Agnese Piraino Leto così ha risposto: «Circa i rapporti tra mio marito e il generale Subranni, di cui mi chiedono, posso dire che Paolo ebbe modo di conoscerlo quando lo stesso era comandante della Regione Sicilia ed ebbe occasione di frequentarlo sporadicamente. I rapporti tra i due erano, quindi, solo di tipo professionale. Prendo atto che le SS. LL. mi rappresentano che la dott.ssa Alessandra Camassa ed il dotto Massimo Russo hanno riferito di essere stati testimoni di uno sfogo di Paolo, il quale, piangendo, disse di essere stato tradito da un amico. Ignoro a chi si riferisse mio marito e, pertanto, non posso affermare che si trattasse del generale Subranni».

La Falange Armata come emanazione dei servizi deviati
Avvincente, affabulante e melliflua come tutte le teorie cospirazioniste, capace di catturare l’attenzione e di annidarsi nella testa di chi non conosce bene in fatti, la fantastica storia della Falange Armata viene proposta da Report con una voce narrante fuori campo: «Siamo nell’autunno del 1993, Francesco Paolo Fulci, diplomatico di lungo corso e capo del Cesis, l’organismo di coordinamento tra il Servizio segreto civile e il Servizio segreto militare svolge un’indagine interna ai Servizi segreti e rende nota una lista di 16 militari appartenenti alla settima divisione del Sismi, un gruppo di superagenti denominati Ossi, Operatori Speciali Servizio Italiano, addestrati ad operazioni di guerra non ortodossa. Fulci dice: sono loro la Falange Armata» (minuti 1.42.45 e seguenti). Parla il pm Tartaglia, il magistrato scelto da Bonafede come Vice capo Dap: «La Falange Armata è certamente un’operazione di intelligence ed è un’operazione di intelligence fatta da chi sapeva fare la guerra non ortodossa in quel momento in Italia». Cercando fatti a riprova, però, non se ne trovano. Risponde al vero che i difensori dei carabinieri hanno già prodotto fior di documenti che smentiscono gli assunti dell’ambasciatore Fulci, ma non ne hanno fatto menzione né il predetto magistrato, né il servizio pubblico, così accreditando un’ipotesi smentita dai fatti.

Saviotti, Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma, che si occupò delle indagini, ha qualificato le affermazioni di Fulci come sentore» tant’è che nelle sue dichiarazioni non ha mai dato la sensazione di poter agganciare a qualche episodio concreto o a qualche indizio che orienti soggettivamente le responsabilità” ed ha aggiunto che «un sentore è un sentore e non consente neppure l’iscrizione nel registro degli indagati». Monteleone, Procura della Repubblica di Roma, nel provvedimento di archiviazione per l’accusa di calunnia ipotizzata a carico del Fulci ha affermato, a chiare lettere, che le ipotesi del diplomatico si basavano su «meri sospetti personali» (Richiesta di Archiviazione depositata in data 25.02.1997, p. 5) e che «pur a seguito delle indagini, permaneva una situazione di carenza di acquisizioni idonee a confortare le opinioni espresse dall’Ambasciatore Fulci» (p. 7), aggiungendo che «l’incongruenza della versione fornita dall’Ambasciatore Fulci si è evidenziata fin dai primi atti davanti alla magistratura… e ciò a prescindere dalla mancanza di risultati, pur ricercati dalla Procura di Roma sulla pista dallo stesso Ambasciatore Fulci indicata» (p. 9). Dopo aver dato minuziosamente conto di tutte le indagini svolte, il magistrato ha ritenuto «altamente improbabile» (p. 9) che Fulci avesse accusato gli appartenenti al Sismi mosso da «banale suggestionabilità ed emotività». Tutti elementi di cui chi ha seguito la ricostruzione di Report non è stato messo al corrente.

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.