Una goldenshare sul rischio populismo? “Certo, l’abbiamo ma siamo sicuri che non la dovremo mai usare”. Così risponde Silvio Berlusconi al Corriere della sera. Un avvertimento gentile a Giorgia Meloni: occhio, siamo determinanti in Senato. Oggi ci siamo, domani chissà. Berlusconi in un cantuccio, notoriamente, comodo non sta. Parlar per primo sul palco di piazza del popolo l’ultimo giorno di campagna elettorale, non chiudere il comizio ma aprirlo, un pochino dev’essergli costato. Ora che dalle urne è uscito non male, conta di saper moltiplicare il peso dei suoi seggi all’occorrenza. E lo dice già.

Il governo non c’è ancora, ma l’agenda internazionale di palazzo Chigi lui l’ha dettata: “Daremo un forte impulso alla presenza internazionale del nostro Paese che può essere protagonista nel consolidare l’Unione” e “nel rafforzare il dialogo leale e costruttivo fra le due sponde dell’Atlantico e nel rilanciare l’iniziativa politica dell’Occidente davanti alle grandi sfide mondiali”. Fa la parte del vecchio leader che rassicura,. Ma anche avvisa: “Ho ricevuto decine di telefonate di leader e diplomatici miei amici. La maggioranza di centrodestra avrà i migliori rapporti con tutti, ma i nostri riferimenti sono l’Ue e l’Alleanza atlantica. Di questo naturalmente saremo garanti, se ce ne sarà bisogno, nel modo più assoluto, anche in quanto membri del Ppe”. Se ce ne sarà bisogno. Nel modo più assoluto. Anche il riferimento a quel Ppe del quale Giorgia Meloni non fa parte (e Forza Italia invece sì) non è benevolissimo.

In Svezia quindici giorni fa la destra estrema è stata la forza politica più votata. In Francia la scorsa primavera Marine Le Pen ha perso nella corsa alla presidenza ma ha moltiplicato i suoi seggi: da 8 a 89. In Europa c’è chi si preoccupa di una deriva dell’Italia su modello polacco temendo che il governo prossimo sarà un impasto di sovranismo e ultraconservatorismo, impanato nell’atlantismo, ma sempre, di fondo, con un sottile sentimento antieuropeo. Berlusconi si preoccupa di rassicurare gli alleati internazionali in forma preventiva: “Ovviamente la collocazione internazionale del Paese per noi è una questione di fondamentale importanza”.

D’altra parte su il Giornale, sul suo giornale, sono due giorni che Augusto Minzolini scrive precise ricette di politica internazionale (e interna)per il prossimo governo. Il suo primo editoriale dopo il risultato delle politiche: “Sicuramente il voto ha mutato la geografia del centrodestra italiano, ma sbaglierebbe chi pensasse di non dare il giusto valore a tutte le componenti interne. Ad esempio, se rispetto al passato l’area centrista e moderata dell’alleanza, dal punto di vista dei consensi, pesa di meno, potrà sembrare un paradosso ma sul piano politico – rapporti internazionali, con le istituzioni e con gli ambienti economici – avrà un ruolo ancora più importante: uno può pensarla come vuole, ma questa componente è una garanzia insostituibile agli occhi della Nato e di Bruxelles. Senza contare che i seggi di Forza Italia, tanti o pochi che siano, sono indispensabili per mettere in piedi un governo e, soprattutto, per farlo durare”.

Esplicita: “Ecco perché il nuovo premier, probabilmente Giorgia Meloni, dovrà ragionare non più come capo di partito, ma come leader della coalizione”. Anche ieri, altro editoriale tutto dedicato alla politica estera del governo che verrà. “Il segretario di Stato Antony Blinken ha dichiarato che l’amministrazione Usa «è ansiosa di lavorare» con il nuovo governo «perché l’Italia è un alleato fondamentale, una democrazia forte e un partner prezioso». “Ovviamente, la richiesta è quella di mantenere la linea di politica estera a cominciare dalla questione Ucraina”. “E qui arriviamo ad uno spunto di riflessione per le anime sovraniste della nuova maggioranza. Mai come ora il Paese per affrontare le incognite internazionali e la crisi economica deve costruire legami forti con i tradizionali alleati a Washington e Bruxelles: la pandemia, la guerra e ora la crisi del gas dimostrano che non ti salvi se ti isoli, che le grandi scelte si fanno in Europa o nella Nato. La caduta dell’economia inglese, figlia della Brexit, ne è l’ultima conferma. Ecco perché sulla politica estera non si scherza. E, a dir la verità, dopo la pandemia i populisti nostrani hanno cambiato le loro posizioni: ormai l’Italexit, per anni un leitmotiv, è stata cancellata dal loro vocabolario. Tutti ammettono che in Europa bisogna starci, magari difendendo di più gli interessi del Paese”.

“Il punto, quindi, è quello di non lasciare dubbi sul tasso di atlantismo ed europeismo del nuovo esecutivo. Perché un conto è dissertare con spregiudicatezza su questi temi quando si è all’opposizione o al riparo di un governo tecnico, un altro è lasciarsi andare a teorie stravaganti quando si è nella stanza dei bottoni. Lì l’eco dei discorsi che si pronunciano e la sensibilità dei nostri alleati aumentano a dismisura. Questa è la prima prova di affidabilità e, per citare Meloni, di «responsabilità» per la maggioranza di centrodestra. Una prova a cui non può sottrarsi: nella prima Repubblica, la politica estera non era un punto del programma di governo, ma la precondizione per farlo nascere; negli ultimi anni, crollati i muri, l’attenzione verso questi temi si era affievolita, ma ora che le lancette della Storia sono state spostate indietro i nostri interlocutori non tollerano più distrazioni. E in fondo la funzione di Forza Italia nella coalizione è proprio quella di «garantire» che l’Italia continuerà ad essere un presidio dell’Europa e dell’Occidente. Un ruolo essenziale a cui non può abdicare il partito di Silvio Berlusconi e che forse ne spiega pure la tenuta elettorale”. I margini dentro i quali Giorgia Meloni può muoversi senza far scricchiolare l’alleanza con Forza Italia sono tracciati.