Rispettosi del buen retiro della presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, in quel di Ceglie Messapica, non vorremmo disturbarla con una riflessione sui due anni trascorsi come inquilina di Palazzo Chigi. Ne ha fatti di viaggi, fino ad ora. Il giro del mondo è stato faticoso, ma importante per essersi fatta conoscere come premier e, nello stesso tempo, per aver portato l’Italia al centro dell’attenzione. Per una “underdog” vincente, un ossimoro bell’e buono, l’impegno è stato sovrumano, avendo svolto, peraltro, nella sua carriera politica solo e soltanto opposizione, esclusa la breve parentesi in cui giovanissima è stata ministro della Gioventù, con presidente Berlusconi. Ha dovuto imparare in fretta e furia e avere la cassetta degli attrezzi pronta per l’uso per affrontare la difficile vita di capa di governo.

Tutto sommato, in questi due anni si è saputa destreggiare nel miglior modo possibile, tant’è che i sondaggi la danno prima su tutto e su tutti: FdI primo partito e lei prima nel gradimento degli italiani. La coalizione che guida regge bene, con un’opposizione che non riesce a trovare un punto di coagulo. La maggioranza di governo si regge sulle spalle della presidente Meloni e grazie anche al prezioso affiancamento di alcune mosche bianche pugliesi e di un cuneese, benché non abbia fatto “il servizio militare a Cuneo”.

La pasta Delmastro…

Il resto della compagine lascia il tempo che trova, ragion per cui deve sobbarcarsi un onere di cui potrebbe fare a meno. La prova provata del suo ceto politico è il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro, la cui condotta supera quella di Carlo in Francia, che ne ha fatte di cotte e di crude. A Taranto non fa visita alla “Mecca dei detenuti”; invece incontra solo la polizia penitenziaria, a Brindisi, nella sala ricevimento del penitenziario, in cui è proibito fumare, si fa un selfie con la sigaretta tra le dita. In definitiva, la stragrande maggioranza dei dirigenti è della medesima pasta di Delmastro.

Da quello che si vede e fa, la premier è un radar a cui non sfugge niente di ciò che accade nel partito, nel governo, nel Parlamento e nel paese, la cui lettura attenta dei fatti è top secret. È la sua forza, ma anche la sua debolezza non fidandosi di alcuno, se non dei parlamentari con cui ha fatto la gavetta, partendo dal Msi arrivando a FdI passando attraverso Alleanza nazionale. Oltretutto la salita al governo di FdI non ha cambiato pelle alla struttura di partito e la Meloni si serve di dirigenti a prova di bomba, conserva i valori del sovranismo ed è ferma al trinomio ottocentesco: “Dio-Patria-Famiglia”.

Meloni e le tre riforme

In questo quadro la premier è in linea con la tradizione sovranista a tutto tondo e non si smuove da lì, mentre il governo del paese Italia ha bisogno di cambiamenti internazionalisti. Comunque: è calato il sipario su miti e riti. E, curiosamente, il revisionismo sta nelle cose, nello status quo, non in un processo di correzione ideologica, politica e storica. Chiaramente, la palla al piede del governo è la Trimurti delle riforme: autonoma differenziata, premierato e giustizia. Tra i partiti che compongono la maggioranza, c’è stata una divisione di lavoro politico: a ciascuno la sua riforma. Sull’autonomia differenziata l’opposizione ha raccolto le firme per indire un referendum. In verità il Partito democratico ha zigzagato parecchio, visto che ora ha cambiato spalla al suo fucile. Tuttavia urgente è la riforma della giustizia, i cui tempi sono lenti, sebbene – tutto sommato – stia procedendo. Con FdI di subcultura securitate lontana mille miglia dallo Stato di diritto. Buio pesto invece sul premierato, sul quale ci sono molti dubbi per come è stato formulato. Meglio una lunga pausa di riflessione.

Le nomine e l’amichettismo

Alla luce dei fatti manca una cultura istituzionale e riformatrice. Per quanto riguarda le nomine di sottogoverno, ci saremmo aspettati più meriti che bisogni e meno amichettismo. Per la madre di tutte le nomine, ovvero la governance Rai, non può restare come “i caciocavalli appesi” di Benedetto Croce. Il primo problema che si presenta alla ripresa sono le nomine dei commissari Ue, partita su cui prende tempo perché ha in mano un pugno di mosche. Nonostante FdI abbia votato contro la presidente von der Leyen, il governo italiano vuole una nomina pesante. Con questi chiari di luna: campa cavallo! Tuttavia spetta alla Meloni, arrivata a metà legislatura, dover fare uno sforzo e pensare al paese. Insomma, dalla difesa deve passare all’attacco, con una visione, che finora non c’è stata.