Matteo Salvini ha deciso di fare campagna elettorale sulla guerra scatenata da Hamas in Medioriente. Nonostante gli allarmi bomba e la psicosi da terrore ha invitato il suo “popolo” a scendere in piazza “contro il terrorismo islamico”, in nome “della libertà e della sicurezza”. Da un punto di vista grammaticale non fa una piega: siamo tutti a favore della libertà e della sicurezza e contro il terrorismo islamico. Quindi l’iniziativa avrà sicuramente seguito e otterrà consenso. Politicamente, però, è come lanciare un fiammifero su una tanica di benzina: una manifestazione del genere, con precise insegne politiche, ha un alto tasso di strumentalizzazione e può diventare facilmente obiettivo di malintenzionati. Qualche lupo solitario, ad esempio.
Per Salvini invece è la cosa giusta da fare e non vuole sentire ragioni diverse. “Ti aspetto sabato 4 novembre a Largo Cairoli a Milano, ore 15. La Lega c’è, tacere è una colpa” è il messaggio inviato a militanti e sostenitori. Il punto è che il resto della maggioranza non ci sta, non aderisce, anzi tace imbarazzata a cominciare dal presidente Meloni che entra ed esce da riunioni con l’intelligence e i ministri dell’Interno e della Giustizia per aggiornare lo stato di allerta e valutare nuove misure per mettere in sicurezza obbiettivi e l’infinità gamma di soft target che la jihad islamica, negli ultimi vent’anni, ha dimostrato di saper conoscere e sfruttare assai bene quando vuole colpire. Specie se ha deciso di affidare la propria guerra alle azioni improvvise, estemporanee ed imprevedibili dei lupi solitari sparsi in Occidente e in Europa. Il professore accoltellato ad Arras, in Francia, e i due tifosi svedesi uccisi l’altra sera a Bruxelles ne sono la drammatica conferma.

Quindi, come se non ci fossero già abbastanza problemi, Salvini ne crea un altro. Cavalcando in modo irresponsabile la solita vecchia e semplicistica equazione: immigrazione = insicurezza = terrorismo. “Lampedusa porta dei terroristi” sono gli slogan rilanciati sui social e da alcuni talk show che mettono in fila gli stranieri arrivati a Lampedusa e che poi, anni dopo, sono stati protagonisti di attentati, da Nizza a Berlino per finire a Bruxelles l’altro giorno. Sono sette dal 2016 a oggi, sette storie diverse, gente arrivata qua in cerca di benessere, non lo ha trovato e si è radicalizzata. E comunque sono sette su circa un milione che è arrivato in Europa passando da Lampedusa.
Salvini ha iniziato a cavalcare la storia di Abdelsalem appena è stato ufficializzato che era sbarcato a Lampedusa nel 2011 con le Primavere arabe. In pratica dopo un paio d’ore, segno che il sistema di identificazione europeo funziona e non ha buchi. “Il killer di Bruxelles era sbarcato a Lampedusa e successivamente era uscito da un centro per i rimpatri, gli attuali Cpr. Quanti personaggi come lui sono in circolazione, anche alla luce delle sentenze degli ultimi giorni?” è stato il primo di una serie corposa di post firmati Lega.

A palazzo Chigi si mettono le mani nei capelli. E anche nel governo. La premier con i ministri dell’Interno e della Giustizia cerca di studiare soluzioni per fare quello che la stessa Von der Leyen ha chiesto: “Rendere efficaci le espulsioni”. Ieri si sono riuniti a Lussemburgo i ministri dell’Interno della Ue proprio per dare seguito a questa richiesta. Che poi è quella di tutti, soprattutto dell’Italia, da anni.
L’Italia ha espulso dal 2015 oltre 700 persone perché “ritenute pericolose per la sicurezza nazionale”. E’ un “privilegio” che ha l’Italia visto che queste persone sono straniere, non hanno la cittadinanza e quindi possono essere espulse. Diversa la situazione in Francia e Belgio.  Il problema, fa notare un analista esperto di immigrazione e sicurezza, “non è lo strumento ma la quantità di possibili target (cioè gli espellendi, ndr)”. Occorre poi ragionare lucidamente su alcuni fatti. “Gli attentati degli anni passati, quelli più sanguinosi, sono stati compiuti da cittadini naturalizzati. Quindi il tema non è fermare i barconi o cose simili ma fare serie ed efficaci politiche di integrazione”. Per evitare che dodici anni in Europa respinto da una parte e dall’altra trovino sfogo alla fine solo nella vendetta.
Fatte queste promesse, note anche al tavolo di Lussemburgo, le espulsioni diventano più efficaci solo se c’è la collaborazione dei paesi d’origine che in genere, sfruttando le anagrafiche quasi inesistenti e l’interesse a non riprenderli, capiscono solo il linguaggio dei soldi. L’unica via è fare accordi economici onerosi con i paesi di origine. Perché anche quella dei Cpr alla fine non può essere una soluzione. Neppure temporanea. Lo dicono i numeri.

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Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.