C’è chi le cornici narrative le costruisce e chi le subisce. Giorgia Meloni, con la sua recente citazione del Manifesto di Ventotene in Parlamento, ha dimostrato ancora una volta di appartenere alla prima categoria. La sinistra, invece, si conferma schiava di un gioco altrui, incapace di uscire dalla trappola comunicativa che le viene tesa.
La vicenda è nota: la Premier, intervenendo in Aula, ha descritto il Manifesto di Ventotene come un testo, sostanzialmente, di ispirazione comunista (dimenticando forse che una delle entrate dei Palazzi dell’Unione è dedicata proprio ad Altiero Spinelli) spostando così il focus del dibattito politico. Un gesto che sulla carta dovrebbe essere accolto con scetticismo da chiunque conosca il valore autentico di quel documento, ma che nella realtà ha sortito un effetto ben preciso, scaldando i banchi dell’opposizione fino alla bagarre.

L’operazione di distrazione di massa

Meloni e i suoi strateghi sapevano benissimo che toccare Ventotene avrebbe acceso polemiche, specialmente a sinistra. Ed è proprio questo il punto: non si è trattato solo di un’operazione retorica, ma di un’abile mossa politica per ridefinire le coordinate del dibattito sull’Europa e rafforzare la propria demarcazione identitaria. Ma, soprattutto, si è trattato di un’operazione di distrazione di massa, mirata a spostare il focus dalle numerose difficoltà che il governo sta affrontando.
I motivi per cui la Premier aveva bisogno di un diversivo sono molteplici. Innanzitutto, la profonda spaccatura interna alla maggioranza sulla questione del Rearm Europe, con la Lega e Forza Italia che mostrano posizioni divergenti rispetto a Fratelli d’Italia. Poi, i dati economici non proprio entusiasmanti, con segnali di stagnazione e inflazione ancora persistente che complicano la narrazione del governo sulle sorti dell’economia italiana. A questo si aggiungono i gravi casi Almasri, che gettano un’ombra sulle politiche di sicurezza e giustizia, la vicenda Santanchè, che continua a generare imbarazzi all’interno della coalizione, e l’irrisolvibile rompicapo dei centri per migranti in Albania, che da soluzione propagandistica si sta rivelando un boomerang politico e gestionale.

E poi c’è la questione più delicata: la posizione dell’Italia rispetto alla guerra russa di invasione dell’Ucraina. Meloni si trova in una strettoia sempre più angusta tra l’Unione Europea e la sua vicinanza ideologica a Donald Trump. Il rischio di dover prendere una posizione netta, scontentando una parte della propria base elettorale o i partner europei, rende la sua leadership più fragile di quanto voglia far apparire.
In questo scenario, l’attacco al Manifesto di Ventotene assume la funzione di una cortina fumogena perfetta: spostare l’attenzione su un tema divisivo e identitario, in cui Meloni può apparire padrona del campo, mentre l’opposizione si affanna a reagire in modo scomposto.

I tre effetti dell’operazione Ventotene

E così, mentre la sinistra si arrovella sulle intenzioni, sulle letture storiche e sulle vere o presunte incoerenze della destra, Meloni incassa il dividendo politico. L’operazione ha infatti prodotto tre effetti immediati:
• Ha spostato l’attenzione mediatica su un terreno favorevole alla destra, obbligando la sinistra a rincorrere e a reagire anziché dettare l’agenda.
• Ha permesso a Meloni di ridefinire il significato del Manifesto di Ventotene secondo la propria visione, spiazzando gli avversari e indebolendo la già fragile e caotica forza del raggruppamento della Piazza per l’Europa di Michele Serra.
• Ha evidenziato, ancora una volta, la fragilità comunicativa dell’opposizione, incapace di un’azione strategica che vada oltre l’indignazione.

In sintesi, mentre Meloni a suo modo costruisce, la sinistra subisce. L’ennesima partita giocata in difesa, con l’avversario che detta tempi e modi dello scontro. Chapeau.
Servirebbe come il pane quella forza politica di interdizione tra destra e sinistra, liberale, che si sta costruendo, in grado di raccontare una narrazione diversa, forte e che richiami le curve ultrà di entrambe le fazioni alle proprie responsabilità, al di là dei falsi bersagli e dei feticci identitari. Un soggetto capace di spezzare questa logica binaria e proporre una politica che guardi ai problemi reali, anziché inseguire sterili battaglie simboliche. Non rimane che confidare che l’esigenza storica di questa forza ne faccia emergere la spinta necessaria e l’impatto che servirebbe nell’agone pubblico.

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Nato nel 1995, vivo a Trieste, laureato in Cooperazione internazionale. Consulente per le relazioni pubbliche e istituzionali, ho una tessera di partito in tasca da 11 anni. Faccio incontrare le persone e accadere le cose, vorrei lasciare il mondo meglio di come l'ho trovato. Appassionato di democrazia e istituzioni, di viaggi, musica indie e Spagna