È bastata la volontà di Mollicone di spezzare le reni a Peppa Pig per smontare gli sforzi di Mieli, Cacciari, De Angelis e tanti altri tesi ad accreditare l’idea di una destra non più radicale. Anche i giornali più compassati come il “Sole 24 Ore” scommettono sull’avvenuta “metamorfosi di Giorgia Meloni”, che in pochi giorni avrebbe infilato in armadio l’abito nero per convertirsi alle idealità liberaldemocratiche. Chi ha ragione? Loredana Bertè che ha paura della fiamma a Palazzo Chigi, Ornella Muti che si spaventa per il richiamo ossessivo alla fede come arma del potere oppure Paolo Mieli e i suoi discepoli di carta e di video pronti a salire sul carro color nero?

Alcuni aspetti del linguaggio del corpo della leader fiammeggiante sono in effetti mutati. Dagli anfibi della donna soldato, che minaccia il mondo inerme dinanzi all’islamizzazione e infiamma l’uditorio avvezzo alle corride, passa alle scarpe da ginnastica per esibirsi su un palco in cui recita da sola (“Vi farò venire il mal di testa, scusate le spalle”). Più che pronunciare un discorso, Giorgia intrattiene con in mente lo spartito che in ogni città si ripropone identico. Lei stessa risponde a un ascoltatore, che prenota la battuta su un tema già atteso, e dice “arrivo all’immigrazione e poi chiudo, come un jukebox del comizio”.

Ad ogni iniziativa si sentono risuonare le note di Rino Gaetano. Curiosa però questa riesumazione canora da parte di chi denuncia l’egemonia di potere, e non culturale, della sinistra. “Secondo voi è possibile che in tutto il mondo dello spettacolo non ce ne sia uno che la pensa come noi? Se c’è, allora perché non parla? Forse perché sa che se parla le sue possibilità in quel mondo potrebbero ridursi?”. E però anche il cantante che utilizzano nelle adunate per uscire dal ghetto in nome della meritocrazia firmava appelli per dare il voto al Pci.
Il senso dell’isolamento è una leva retorica della destra che ama lamentare le ferite accumulate nella militanza in un antico polo escluso. A Firenze Meloni sfida l’orgoglio di una destra che si è abituata ad “abbassare la testa perché accusata di essere la parte sbagliata della storia”.

La parola d’ordine “Pronti” è un grido di battaglia di un esercito che ha l’occasione per lanciare una piena controffensiva. Secondo Meloni la libertà è stata conculcata nella storia repubblicana: “Noi siamo pronti, ora dovete dimostrare di essere pronti voi. Deciderete voi se questa Nazione sarà libera”. La patriota immagina di essere in una terra straniera che va per la prima volta guadagnata alla causa della libertà: “Finalmente un governo di persone libere che non si fanno ricattare e comprare”. Gli altri partiti sono dipinti come dei servi e nemici della patria (“la sinistra è in ginocchio a leccare i piedi di francesi e tedeschi. Io ce l’ho con gli italiani che si sono venduti agli interessi dei francesi e dei tedeschi”). Certe volte gli altri sono raffigurati addirittura come dei mostri (“propongono pratiche abominevoli come l’utero in affitto o la droga libera. Loro sono i mostri”).

Il sentimento ostile verso un nemico che non può mai essere riconosciuto nella sua dignità pubblica è palpabile: gli altri partiti sono centri di potere privi di valore perché “loro hanno sempre odiato la Patria”. Quello che distingue però FdI dalle pratiche novecentesche di inimicizia verso i sovversivi è l’esclusione di metodi violenti di guerra contro l’avversario. Verso i migranti, invece, la retorica assume delle pieghe più sospette e scivola in forme di etno-populismo: “Abbiamo già raccolto 100 mila firme perché la cittadinanza italiana non si regala! Se vuoi essere cittadino italiano, lo devi volere, lo devi sudare, lo devi meritare. Da noi funziona così: la cittadinanza non è un diritto, ma un premio per chi rispetta la nostra identità”. A confronto della patriota che brandisce la spada dell’ostilità etnica, il capitano in declino è un lettore di Montesquieu.

Anche la voce di Meloni in queste occasioni oratorie si lascia trasportare da un impeto incontenibile: “Se servono muri, si costruiscono muri. Se serve il blocco navale, si fa il blocco navale”. Le sue urla si lanciano minacciose quando deve punire una cultura (“E lo voglio dire un’altra volta: se vi sentite offesi dal Crocifisso o dal presepe, beh non è qui che dovete vivere! Difenderemo Dio, la Patria e la famiglia, e fatevene una ragione”), isolare una fede (“non abbiamo alcuna intenzione di diventare un continente musulmano”), denunciare un’etnia (“andate a combattere l’evasione dei cinesi e degli extracomunitari”), spezzare una comunità (“ormai interi quartieri sono in mano alla legge islamica”).

Non solo il linguaggio diventa aspro nella denuncia della “sostituzione etnica” in corso, con cadute rovinose della oratoria nella più sguaiata invettiva (“Accade solo in Italia: a casa tua devi tornare! A casa tua!”). Anche la legge deve avere un fondamento etnico-religioso e prevedere quindi puntuali sanzioni e incentivi distribuiti secondo una specifica base nazionale-identitaria. La proposta di un diritto etnico formulata da Meloni prevede solo in caso di avvio di un’impresa da parte di extracomunitari la presentazione di una fideiussione. Per le imprese patriottiche lo Stato deve lasciar fare (“Lo Stato non deve rompere le scatole alle aziende, deve lasciarle lavorare”). Per le attività aperte da stranieri, invece, deve controllare, proibire, impedire, ostacolare.

La “pesciarola” ha nel repertorio una narrazione esilarante degna della commedia quando denuncia il “pizzo” richiesto dallo Stato e invoca la rimozione delle “leggi speciali” in ambito tributario. Lo Stato criminogeno è una fiamma gialla che “ti accusa senza dimostrare niente, la lotta all’evasione fa ridere. È una caccia al gettito. Arriva il vigile, e il funzionario dice alla pescheria: lei vende i pesci e non ha il nome dei pesci che vende scritto in latino, duemila euro di multa”. Per mostrare di non avere nulla da invidiare sulle questioni fiscali alle categorie economico finanziarie di un De Viti De Marco, Meloni se la prende con lo Stato che, complice l’Agenzia delle entrate, va solo “contro Mario Rossi” e rinuncia a prescrivere per gli extracomunitari “una fideiussione a monte per far pagare il fisco”.

Ma le vette della cultura economico-fiscale Meloni mostra di raggiungerle quando sbotta in maniera surreale: “Adesso hanno messo il tetto al contante e dobbiamo pagare con il bancomat. Tra un po’ andremo a prelevare i nostri soldi al bancomat e il bancomat ci chiederà: Perché vuoi 100 euro? Che ci devi fare? Ma fatti gli affari tuoi, sono i miei soldi, che ti frega che ci devo fare, guardone! Metodi staliniani e noi diciamo no ai metodi staliniani!”. Lo Stato guardone-staliniano deve essere abbattuto in nome dei cittadini vessati.

Con le sue sofisticate categorie economiche (“Vi servono i soldi per non aumentare l’IVA? Beh smettete di dare il reddito di cittadinanza ai nomadi, agli abusivi, ai brigatisti”), è sicuramente “Pronta” per guidare un esecutivo in lotta contro la catastrofica transizione ecologica. Per una Meloni in vena anticomplottista, Greta è solo una creatura delle “lobby multinazionali che ne dirigono la retorica, utilizzando l’ecologia come trappola che ci consegnerà mani e piedi alla Cina, mentre centinaia di migliaia di aziende europee verranno messe fuori mercato e milioni di lavoratori rischieranno il posto di lavoro”.

Il tentativo è quello di definire un blocco sociale cristiano-nazionalista contro la finanza e i migranti, che finiscono “per spartirsi briciole di pane con i nostri poveri nelle periferie delle grandi città metropolitane”. In questo dare addosso “agli oligarchi della Silicon Valley, che con i loro multimiliardari Stati digitali” spezzano la sovranità, ritorna il riferimento classico novecentesco contro le plutodemocrazie. Meloni scaglia “le famiglie e i bar” contro “i giganti del web”. Intende aggregare il piccolo commerciante che non sopporta la bancarella come concorrenza sleale, il piccolo imprenditore che non tollera i padroncini di altre etnie, e i ceti operai mobilitati contro la concorrenza dello straniero che fa perdere diritti e salario. Da collante fa la ripulsa verso il reddito di cittadinanza che premia l’ozio di “persone in piena salute che prendono più di un disabile che ha 270 euro al mese o di chi ha pensioni minime di 500 euro”.

Tracce di cultura fascista sono presenti eccome nel lessico e nelle immagini della nemica dei “passionari del progressismo”. Ciò non significa che esse si traducano anche in atti legislativi di marca autoritaria e che oggi sia possibile fare ricorso alla violenza come metodo di azione politica, come invece accadeva nel secolo scorso. Più che il fascismo in senso stretto (una ideologia coerente il ventennio, del resto, non l’ha mai espressa), è l’antecedente storico del conservatorismo antirivoluzionario, cioè la filosofia della Restaurazione di de Maistre, a fare da ispirazione.

Le radici culturali si confondono anche con alcune parole d’ordine dei pensatori della rivoluzione conservatrice simpatizzanti del caporale austriaco promosso a pastore dell’essere. La terra (“Amare la Patria significa amare la terra dei padri, che non è solo la terra come luogo degli affetti e dell’identità, ma è anche il territorio in cui viviamo”) e il sangue (“Sono popoli fratelli, nelle loro vene scorre tantissimo sangue spagnolo e italiano”) figurano nel discorso di Meloni come miti, valori fondativi, cemento di un comune e differenziante destino.

Il tradizionalismo è la cornice identitaria di una destra ambigua, con venature illiberali e carenze nella capacità di governo. Non basta come credenziale l’invito a “rivoltare la nazione come un calzino con buona volontà, buon senso” o confidare nella sorte per edificare, oltre il sangue e la terra, una economia del mare (“grazie a nostro signore Gesù, siamo la porta d’Europa, non la Svizzera”). I miti romano-imperiali recuperati a Firenze (“oh ragazzi, noi siamo una civiltà che duemila anni fa costruiva un ponte in dieci giorni, dobbiamo recuperare la nostra grandezza, velocità”) evocano un immaginario novecentesco, ma soprattutto disvelano una profonda semplicità di cultura dell’amministrazione. Certo i fratelli in nero possono recuperare, hanno a disposizione, per una celere infarinatura di sapere, un loro Bignami. Quell’onorevole Galeazzo che, per esercitare memoria e tradizione, indossava le uniformi naziste. Farà strada insieme a Mollicone, che intanto per prenderci gusto comincia con la repressione di Peppa Pig.