La destra e il governo che verrà
Meloni verso la vittoria ma dopo promesse e zuffe il futuro si gioca sulla squadra dei ministri
Da qui al momento del voto, tutto può capitare, naturalmente. In passato l’elettorato del nostro paese si è spesso dimostrato molto volatile e diversi indicatori suggeriscono che lo sia tuttora in misura anche forse maggiore: nelle ultime elezioni europee, una quota significativa di cittadini dichiarò di avere deciso il partito cui dare la propria preferenza (e se votare o meno) solo nel corso dell’ultima settimana prima del voto (e qualcuno il giorno stesso, in certi casi addirittura dentro la cabina).
Dunque, il quadro attuale rilevato dalle opzioni espresse nei sondaggi si può teoricamente ancora modificare, anche se, per la verità, questa prospettiva appare oggi assai poco probabile. Ma, in realtà, nelle scelte elettorali degli italiani un elemento di continuità c’è, almeno a partire dalla seconda repubblica. Come abbiamo più volte sottolineato in passato anche su queste colonne e come ha di recente ribadito Giovanni Orsina, si rileva nel comportamento degli elettori una costante aspirazione – e conseguente scelta di voto – verso il “nuovo”, il “diverso”, mostrando continuamente il desiderio di un rinnovamento del quadro politico, di volta in volta garantito dal ruolo di personaggi “nuovi” che emergono nell’offerta dei partiti, vecchi e nuovi. È anche in questo quadro motivazionale che gli italiani hanno premiato a suo tempo Berlusconi (e, in una certa misura, prima ancora Bossi) poi Grillo, poi ancora Salvini.
Adesso tocca a Meloni, che, anche negli ultimi giorni ha accresciuto, secondo le ricerche condotte, il suo seguito e che, anche nella campagna elettorale in corso, cerca di interpretare e sottolineare al meglio la sua immagine di “novità” rispetto agli altri attori presenti sullo scenario politico (anche se ha naturalmente sbagliato a volere anticipare le future scelte di Mattarella: ma si tratta, in fondo, di un errore dettato dall’ansia di divenire premier). Dunque, se tutto procede come sembrano sino ad oggi inequivocabilmente indicare i sondaggi sulle intenzioni di voto, dopo il 25 settembre la destra tornerà a formare da sola un suo governo dopo più di dieci anni in cui o era stata all’opposizione o aveva dovuto sostenere più o meno controvoglia governi di unità nazionale guidati da “tecnici”. “Tecnico“ è un termine un po’ strano – e in una certa misura fuori luogo – con cui si fa riferimento a personalità considerate “competenti” ma non elette dai cittadini; il che sembra suggerire purtroppo una scarsità di competenze fra gli eletti: altrimenti non vi sarebbe ragione di far ricorso a tali “tecnici”, privi della legittimità elettorale costantemente invocata dai politici.
Tuttavia, la destra, nella cui coalizione domina, come si sa, il partito di Giorgia Meloni, arriverà al governo in una situazione economica particolarmente difficile – se non, come alcuni temono, drammatica – per il paese, a causa dei problemi energetici, della guerra e dell’inflazione. È una circostanza che la leader dei FdI sembra talvolta aver compreso meglio di altri: quantomeno ha mostrato il coraggio di riconoscerlo – anche certo per il suo comprensibile sforzo di costruirsi una reputazione, soprattutto internazionale, che non le viene dal suo passato. L’aumento dei prezzi delle fonti energetiche, di cui l’Italia avrà bisogno per far lavorare le sue industrie e riscaldare le case dei cittadini e dei luoghi di lavoro nel corso del prossimo inverno, potrebbe costringere il nuovo governo, sin dalla sua nascita, a misure di austerità impopolari, di cui esso farebbe assolutamente volentieri a meno.
E questo l’ha capito anche Matteo Salvini, che chiede al governo dimissionario, che pure ha contribuito a far cadere, di prendere queste misure impopolari o almeno di negoziare con i partner europei un qualche calmieraggio dei prezzi dell’energia. Operazione meno difficile se condotta da Mario Draghi, grazie, di nuovo, alla sua reputazione. Come che vada questo tentativo, la composizione del governo prossimo venturo, vale a dire la scelta delle persone da inserire nell’esecutivo che si formerà dopo le elezioni, sarà la decisione più importante per l’Italia dei prossimi mesi e forse più. Senz’altro più importante del passato di Giorgia Meloni e dei toni della campagna elettorale, fatta almeno in parte di promesse impossibili da realizzare e di attacchi che gli uni e gli altri si potrebbero risparmiare, anche perché è poco probabile che abbiano un impatto sulle scelte degli elettori nelle urne: la veemenza degli insulti e delle contrapposizioni può servire (forse) a rinsaldare il proprio seguito attuale, ma difficilmente contribuisce ad allargarlo. E tuttavia viene praticata sempre più dalla gran parte delle forze politiche coinvolte in questa (brutta) campagna elettorale.
Tornando alla composizione del futuro governo, è bene ricordare che il principale interlocutore dei partner europei – i condòmini della zona euro – sarà il nuovo ministro dell’economia, che dovrà necessariamente avere le competenze e il prestigio per assolvere la sua funzione e una buona reputazione presso le cancellerie europee. La selezione di quest’ultimo (su cui già circolano i primi nomi, più o meno fondati) sarà dunque cruciale. Il collasso del M5S presso l’opinione pubblica, dovuto anche alla manifesta impreparazione e incompetenza di diversi suoi esponenti, anche in posizione di responsabilità di governo (non è vero che uno vale uno!) dovrebbe aver insegnato ai cosiddetti “sovranisti” che si accingono a governare che un paese importante come l’Italia (la terza economia della zona euro – mica la piccola Ungheria che commercia con i suoi fi orini e che ha meno abitanti della area metropolitana di New York) non può essere ben condotto da chi non ne ha da subito le capacità e indipendentemente dalla comune gestione europea di buona parte della sua economia. Questo tema è uno di quelli che dovrebbe essere cruciale nella campagna elettorale e venire esplicitato bene dai partiti, che non sempre lo fanno in modo chiaro.
Ma va detto che la stessa Giorgia Meloni sembrerebbe (ma il condizionale è d’obbligo), in alcune sue dichiarazioni più recenti, avere fortemente attenuato un “sovranismo” gretto e ottuso (e, in particolare, l’idea della supremazia delle normative nazionali su quelle europee) e avere compreso l’importanza della (faticosa) integrazione e collaborazione con le altre nazioni del vecchio continente. Al riguardo, si consideri, pensando alle tensioni degli ultimi anni in seno all’Unione Europea, che, da un lato, si è ridotta l’ostilità dei governi post-comunisti degli stati membri nei confronti dei paesi che difendono la democrazia liberale – la Polonia essendo alla punta della politica di difesa dell’Ucraina aggredita dalla Russia e avversa su tale questione decisiva nei confronti di Orban – al punto che una delle vittime collaterali dell’errore strategico di Putin è il collasso dell’ormai ex gruppo di Visegrad.
Dall’altro, va osservato che, grazie alla pandemia e (si spera) alla emergenza energetica, i paesi del Nord dell’Unione hanno messo la mano al loro portafoglio per aiutare le nazioni in maggiore difficoltà per quanto riguarda i loro conti pubblici, con una quantità imponente di denaro, in parte già assegnato, ma che in larga misura deve essere ancora distribuito, non come carità, il che è falso e sarebbe offensivo, ma come stimolo a correggere le inadeguatezze strutturali del funzionamento del nostro paese. Il che dipende moltissimo dall’impegno del futuro governo e (anche) dei cittadini. Parlare oggi di sovranità che l’Unione Europea ci sottrarrebbe, vuol dire dunque non aver capito che questa non consiste nell’indipendenza (cioè nell’autarchia), ma, al contrario, nella dipendenza reciproca – facendo attenzione naturalmente a chi assegnare fiducia in queste relazioni di interdipendenza.
Per fare tutto ciò occorreranno, dicevamo, le persone competenti, in primo luogo per chi assumerà il decisivo dicastero dell’economia. Passato il clamore e gli eccessi della campagna elettorale, sarà solo quando verrà preparata la lista dei ministri dal premier incaricato e dal presidente della Repubblica che capiremo meglio come si presenta il cambio della guardia al governo del paese e quali potranno esserne le implicazioni e le conseguenze.
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