Il PnrrPiano nazionale di ripresa e resilienza per l’utilizzo dei fondi del Next Generation Eu – è un documento molto complesso ed è comprensibile che le diverse forze politiche e sociali nonché gli studiosi si concentrino sulle cose che non vanno bene al fine di intervenire per correggerle. Va però detto che l’intero documento è informato a una visione condivisibile dell’economia italiana e dei suoi problemi, cosa della quale la classe dirigente italiana, che pure da anni denuncia quegli stessi problemi, non sembra essersi accorta.

La visione giusta è quella che parte dalla constatazione che da oltre vent’anni l’Italia non cresce e che ciò è dovuto a problemi interni, quelli che nella premessa al piano, firmata dal Presidente del Consiglio, vengono definiti “problemi strutturali noti, ma mai affrontati con sufficiente determinazione”. Questi problemi sono elencati nel seguente ordine: scarso investimento nell’economia della conoscenza, dalla scuola di base fino all’università e all’alta ricerca, inefficienza delle pubbliche amministrazioni, lentezza della giustizia civile e penale. Su queste questioni quindi occorrono azioni di riforma, nel segno di ciò che da anni ci chiede la Commissione Europea. La finalità – si afferma – è quella di «rimuovere i principali ostacoli che impediscono al Paese e al suo ricco tessuto imprenditoriale di crescere come sa e può fare».

L’altro punto cui il documento dedica ampio spazio è l’esigenza di ridurre il rapporto debito/pil. Al riguardo, nella prima parte del documento – quella dedicata agli obiettivi generali del piano – si ripropone il grafico della Nadef in cui il rapporto debito/pil, dopo l’impennata del 2020, ritorna al livello del 2019 nei prossimi dieci anni. E anzi si afferma che “[questo] piano di riduzione del debito potrà essere rivisto verso obiettivi ancora più ambiziosi”. Questi temi – la bassa crescita dell’economia italiana, l’alto debito pubblico e i fattori strutturali interni che ne sono la causa – non sono specchietti per le allodole che stanno nelle prime pagine e poi si perdono nel corpo del documento. Sono invece concetti che vengono ripetuti continuamente e che informano la struttura delle quattro linee strategiche e delle sei missioni in cui si articola il piano. I due pilastri della strategia europea – green new deal e digitalizzazione – vengono calati nella realtà italiana e diventano i drivers per far uscire l’Italia dalla sua lunga stagnazione e ridurre la molte disuguaglianze che la crisi ha messo a nudo e in qualche caso acuito.

L’aspetto più positivo – e quasi sorprendente, dati i tempi – è che da nessuna parte nel documento fanno capolino le pseudo teorie populiste che hanno tanto spazio nel discorso pubblico da molti anni. Non si fa alcun cenno a presunti vincoli imposti dall’Europa, non vi è alcuna recriminazione sulla famigerata “austerity” né sui divieti di aiuti di stato, non vi è alcun cenno ai costi o ai privilegi della cosiddetta casta. Non vi è neppure alcun cenno alle idee che circolano sullo stato imprenditore; anzi in più punti si ribadisce ciò che è scritto nella premessa e cioè che lo sviluppo lo fanno le imprese e che allo stato compete di eliminare gli ostacoli al pieno dispiegarsi delle capacità imprenditoriali di cui è ricco il Paese. E si afferma altresì che la crescita è il fattore che può rendere possibile politiche volte a promuovere la sostenibilità sociale e quella ambientale. Si tratta di un bel passo avanti rispetto alle idee di pezzi importanti delle nostre classi dirigenti secondo cui è ora di smettere di essere ossessionati dalla crescita del Pil e dell’efficienza dell’economia ed è invece tempo di occuparsi della sostenibilità. Nel documento del governo, come nell’impostazione della Commissione Europea, la sostenibilità sociale e quella ambientale si coniugano con la crescita e non la sostituiscono.

Va da sé che avere la visione giusta è solo il primo passo per fare le cose giuste. Però è un primo passo non irrilevante perché solo se vi è una visione condivisa si può aggregare il necessario consenso politico. È anche del tutto comprensibile che di fronte a un documento che interessa quasi tutti i settori dell’economia, ognuno abbia le proprie riserve. Ma un cosa non si deve fare: criticare sulla base dell’argomento che le cose andranno male in futuro per il fatto che sono sempre andate male in passato. Se si parte con questa idea è inutile discutere di progetti per il futuro: il presente, con tutti i suoi guai, ci perseguiterà per sempre. È invece lecito esprimere un po’ di sano scetticismo e, soprattutto, chiedersi come mai certe cose che vengono ripetute da anni non si sia mai riusciti a realizzarle. Questo non solo è lecito, ma è doveroso perché solo una riflessione sui fallimenti del passato ci può aiutare a capire come affrontare le difficili sfide dell’oggi. Ma questo è un altro capitolo.