Qualcosa comincia a sfigurare la giustizia sulla diffamazione – diciamo così – “politica”. Per capirsi: il caso di quello che ti ha dato del “nazista” (ma “stalinista” sarebbe lo stesso), con il giudice impegnato a valutare la legittimità dell’addebito non sulla base di ciò che hai detto o fatto – insomma sulla base dei tuoi comportamenti – ma sulla base di ciò che “sei”. Che in realtà, ovviamente, non è ciò che tu “sei” ma ciò che il giudice – arbitrariamente – ritiene che tu sia.

Arbitrariamente perché una “essenza” nazista, o stalinista, se pure fosse descrivibile da un punto di vista sociologico non potrebbe (non dovrebbe) essere valutata in nessun modo nel luogo in cui si applica la legge. Ma proprio questo comincia ad accadere nelle nostre aule di giustizia: il diffamato di cui si indaga “l’essenza” per valutare se “merita” la diffamazione. Pericoloso andazzo. Perché se il diritto di non essere diffamati non si basa più su ciò che “si fa”, ma su ciò che “si è” a giudizio del diffamatore e del giudice, allora diventa legittimo scrivere che quel giudice è essenzialmente uno stalinista perché ha assolto il Tizio che ha dato a Caio del nazista siccome Caio “è” nazista.

E, magari, per accertare l’essenza stalinista di quel giudice si potrebbe portare la testimonianza del vecchio compagno di scuola che una volta l’ha visto dipingere una falce e un martello su un muro. La soluzione dovrebbe essere un’altra. Quello non merita di essere definito nazista, essendo soltanto uno che la pensa diversamente rispetto al diffamatore. E quel giudice non merita di essere definito uno stalinista, essendo soltanto uno che ha scritto una sentenza sbagliata.