Michela Marzano, filosofa, scrittrice, il suo ultimo libro è “Sto ancora aspettando che qualcuno mi chieda scusa” (Rizzoli). Innanzitutto una tua opinione sullo stato dei rapporti tra uomini e donne oggi e se questo è un momento di maggiore consapevolezza femminile.

È un momento di grande riflessione sui rapporti tra uomini e donne. Ne avevamo già discusso nel 2013 in Parlamento con la ratifica della convenzione di Istanbul, e l’Italia si era impegnata nel contrasto alle violenze di genere con la strategia delle tre P, la punizione dei colpevoli, la protezione delle vittime e la prevenzione. Sulla punizione le norme si sono moltiplicate, sulla protezione si è fatto meno perché i centri antiviolenza non sono debitamente finanziati ma ancora meno, se non niente, si è fatto a livello di prevenzione. La domanda della sorella di Giulia Cecchettin di compiere una rivoluzione culturale è caduta in un vuoto generale. Va presa di petto la cosiddetta cultura dello stupro, smontarla, mostrare tutte le situazioni di abuso. Il problema resta sempre lo stesso, la colpevolizzazione delle vittime, la vittimizzazione secondaria, la vergogna che nonostante tutto resta dalla parte delle donne, e quindi tutto ciò andrebbe affrontato introducendo un’educazione alla affettività nelle scuole, ma bisognerebbe che anche i nostri rappresentanti culturali e politici ci mettessero un po’ del loro.

Il tema del consenso è centrale, spesso ci si interroga o si istruiscono processi sulla linea sottile che esiste nelle modalità con cui si esplica un rifiuto.
La sensazione è che invece di andare avanti si stia tornando indietro, perché ancora fino a qualche anno fa c’era la certezza che esistessero delle vere vittime, per cui dal sangue e dai vestiti strappati si riconosceva come fatto la violenza subita. Adesso si rimette in discussione la certezza di essere state vittime in quella situazione, quindi meno che mai si considera tutto il resto delle situazioni, cioè quelle per cui sul corpo i segni non sono evidenti ma il consenso non c’era. Non bisogna necessariamente urlarlo, può essere anche implicito, si può dire no e piano, e non c’è bisogno di avere dei testimoni per dimostrare di non essere consenzienti. La logica andrebbe completamente ribaltata anche da un punto di vista processuale, non si dovrebbe costringere una donna a dimostrare l’assenza del consenso ma si dovrebbe spingere chi è dall’altra parte a mostrare che il consenso ci sia stato. Qui forse ci vorrebbe anche un intervento legislativo, perché in alcuni paesi è stato esplicitato che senza consenso si è in presenza di uno stupro.

Inoltre se non si assumono la responsabilità gli uomini di un tema del genere, anche dal punto di vista del modo in cui si è educati e dei vari retaggi culturali, è difficile uscirne.
Certamente. Ancora adesso le ragazze si sentono dire “state attente, non uscite, non bevete”, un modo per restringere ancora di più la loro libertà senza considerare che il consenso è espressione di libertà e di autonomia, se io restringo la libertà di una ragazza tolgo peso anche al consenso. I papà e gli insegnanti spieghino ai figli e ai ragazzi qual è il significato del rispetto, considerare la presenza piena della persona che hai di fronte con le sue fragilità, non solo soverchiare pensando che se beve ci sta, se balla con me vuole che la baci, se la bacio me la posso portare a letto. Il consenso all’interno delle relazioni affettive non è un punto fisso, è sempre un movimento, è qualcosa che io dò e posso tirare indietro, posso dire sì e poi cambiare idea. La possibilità di cambiare idea fa parte anch’essa della mia possibilità di acconsentire o meno a una relazione. Un po’ come quando ci si sposa, acconsento a qualunque cosa accadrà nel matrimonio oppure a determinate cose? E se ho detto sì non posso più tornare indietro? Al contrario, proprio perché non è un sì monolitico.

Il tema della pornografia totalmente accessibile, che propone un modello univoco, ha inciso nelle convinzioni degli adolescenti per cui ciò che accade nei film sembra essere quello che deve accadere nella realtà?
La questione è complicata, perché quest’accesso libero non è un fatto nuovo. In queste immagini si ribadisce lo stereotipo della donna che accetta qualunque cosa e subisce mentre l’uomo agisce. Vent’anni fa questo modello non aveva ancora iniziato ad essere scardinato, ora lo è in alcuni discorsi ma non lo è in queste immagini, che vengono lette senza sguardo critico né contestualizzate. La parola degli adulti ha perso credibilità, chi è capace di spiegare cosa si vede e non si vede in quelle immagini? Ci vuole anche una forma di autorevolezza per spiegare che un’attrice che vive determinate situazioni lo fa a volte subendo lei stessa una violenza che poi denuncia tempo dopo. L’abuso di potere esiste anche quando si filmano certe scene, le cose andrebbero spiegate, c’è un’incapacità di nominarle per come le vediamo in maniera giusta. Questo perché anche noi adulti, immersi nel mondo delle immagini, abbiamo dimenticato l’Abc della lingua italiana.

Le cifre relative a chi soffre di disturbi alimentari sono in allarmante crescita, 3 milioni i malati e 4000 i morti. In più il governo ha tagliato i già pochi fondi dedicati…
Sono stati tagliati 25 milioni di fondi del 2021 per cercare di differenziare i disturbi dell’alimentazione e della nutrizione dagli altri psichiatrici. Non si può trattare un disturbo del comportamento alimentare sbattendo una persona in un reparto psichiatrico. C’è una specificità e delle competenze che vanno finanziate perché chi ha una famiglia economicamente stabile si può curare, mentre chi non ce l’ha rischia di restare impantanato non in una patologia psichiatrica ma all’interno di un sintomo. È fondamentale distinguere il sintomo dalla patologia psichiatrica, e non è un caso che questi sintomi siano cresciuti moltissimo durante il periodo della pandemia ma dobbiamo anche evitare di credere che tutti gli adolescenti siano psichiatrizzabili, cercano solo di esprimere il proprio disagio. Il disturbo del comportamento alimentare equivale a dire attraverso il cibo ciò che non sono riuscita a dire in maniera diversa e aspetto che almeno in quel momento mi si cominci ad ascoltare, ma chi ne soffre non è un matto, non bisogna polarizzare. Il sintomo è qualcosa con cui si impara a convivere e sono diverse le cose con cui prendersela, il cibo, l’alcool, le droghe oppure semplicemente gli oggetti per controllare la forma d’ansia. Bisogna prevenire, costruire un mondo dove si chieda meno ai giovani e agli adulti, invece di sottometterci tutti a una tale pressione che dopo un po’ per forza si scivola in uno di questi sintomi.

Hai scritto che da questi disturbi non si guarisce mai del tutto, perché?
Ne ho scritto su Repubblica suscitando grandi polemiche. Mi è stato risposto “se tu non sei guarita problema tuo, io l’ho fatto e ho vinto la sfida”. Non sto dicendo che si resti dall’inizio alla fine della propria esistenza impantanati nel sintomo. Il cibo torna la maggior parte delle volte ad essere semplicemente cibo, tranne quando si vive un momento di difficoltà e ci si riaggancia alla cosa che si conosce meglio, si vive tranquillamente ma c’è sempre un punto di fragilità nella vita di chiunque. Una persona che ha avuto questi disturbi e a ha sentito il bisogno di mostrare di essere più forte della propria fame sta cercando di controllare le cose che la circondano, ci si può anche convincere che conti relativamente essere la più brava ma quando ad esempio devi consegnare una tesi o un articolo, lì ricominci ad avere qualche piccola tribolazione col cibo. Ci sono su Instagram profili di adolescenti che dicono “fino a tre anni fa ero malata, adesso sono guarita e sono quei per aiutarvi”, che è anche un modo di non uscire dal tema restando sempre nella tematica dell’alimentazione. Anche basta con questa colpevolizzazione per cui “io la sfida la vinco, tu no, peccato per te”. Quando uno prende alla lettera una frase come questa, sfido chiunque a dirmi di non aver più sentito quella voce e quando risponde “io la sfida l’ho vinta”, forse sta molto più nel sintomo di chi dice di continuare a sentire quella voce. Cosa c’è dietro questi disturbi? C’è lo sfidare e lo sfidarsi, quindi prendere tutto così è segno che forse proprio completamente fuori non ci si sta.

Nel 2013 sei entrata alla Camera come deputata del Partito Democratico, senza essere, diciamo, una politica di professione. Che esperienza è stata per te, la rifaresti?
Alla fine è stata un’esperienza difficile e dolorosissima ma, a distanza di tempo, sono molto contenta di averla fatta perché ho imparato tante cose, persino di essere capace di sbattere la porta in faccia al capo come quando me ne andai dal Partito democratico. Dopodiché rifarla no grazie e poi, come dico ai miei studenti, anche insegnare è un modo di fare politica.