Quando William Barr arrivò in Italia nell’estate del 2019 l’obiettivo principale era il professor Joseph Mifsud. Il motivo era assai semplice: Mifsud era un uomo dal doppio volto. Da una parte godeva di un vecchio rapporto con il partito democratico americano e in particolare con Hillary Clinton, dall’altro intratteneva relazioni strettissime con uomini del Cremlino. Nulla di scandaloso in quel mondo che naviga tra affari, diplomazie e politica: tutti sono amici di tutti. Mifsud però era a conoscenza delle attività russe sulla campagna elettorale della Clinton datata 2016, quella cioè contro Donald Trump, finita fin da subito sotto indagine da parte dell’Fbi.

Da chi aveva ricevuto Mifsud simili informazioni? Da uno dei suoi uomini di punta: George Papadopoulos. La vulgata trumpiana era così pronta per essere ammansita: Mifsud lavorava per la Clinton e il Russia-gate era un’operazione per minare la presidenza di Trump se fosse uscita vincente, come è avvenuto, dalla sfida del novembre 2016. Ai servizi italiani Barr aveva in mente di chiedere proprio questo: la prova che Mifsud fosse legato al mondo democratico americano e che lavorasse in Italia anche sotto la protezione dei governi targati Pd, quelli Renzi-Gentiloni. Ma come detto Mifsud era in stretti rapporti con la Clinton e anche con il Cremlino. E pertanto fu l’inchiesta del controspionaggio italiano che causò lo stop alla missione di Barr: non solo l’Aisi aveva informazioni non coincidenti con quanto invece l’amministrazione Trump cercava ad ogni costo ma esse andavano in direzione opposta e di certo non potevano essere rivelate, meno che mai a uno stato estero e in quel modo, perché coinvolgevano esponenti politici di punta. Insomma, Trump cercava a Roma prove per incastrare l’Fbi che indagava su di lui (e i russi) ma i Servizi italiani ne avevano sulla penetrazione di Mosca in Italia.

Ci sono due pesanti indizi che spiegano come la missione di Barr in Italia fosse in offside rispetto al protocollo ufficiale che regola i rapporti, anche di intelligence, tra due paesi alleati. Il primo è che l’ambasciata Usa in Italia nulla sapeva di questa missione. Il secondo è che la richiesta di ottenere info su Mifsud, paradossalmente, andava ad incidere proprio sul mondo che aveva agito per portare al successo il Movimento cinque stelle e che coccolava la leaderhip sovranista e filorussa dell’allora presidente del Consiglio: la Link university dove Joseph Mifsud insegnava ed era considerato un’autorità. Era alla Link che Mifsud era stato visto l’ultima volta prima di scomparire e alla Link aveva fatto sbarcare alcuni pezzi da novanta dell’intellighenzia putiniana, battezzando una partnership tra l’università romana e la prestigiosa accademia Lomonosov. Sulla Link fin dal 2016 è stata aperta un’inchiesta del controspionaggio dell’Aisi.

Mifsud era il motore primo intorno al quale giravano tutte le analisi e le acquisizioni degli apparati italiani. Che in breve tempo si accorsero come nell’università diretta da Enzo Scotti erano di casa non solo Mifsud e i suoi amici russi ma l’ex-capo dei Servizi Gennaro Vecchione, voluto fortissimamente da Conte a capo degli 007 senza alcuna pregressa esperienza nel mondo dell’intelligence, ma anche Bruno Valensise, oggi numero due del Dis ed ex-direttore dell’Ufficio centrale per la segretezza, tra i più delicati dell’Aisi perché rilascia i Nulla osta di sicurezza. E ancora svariati parlamentari del Pd e del Movimento cinque stelle, una futura ministra della Difesa –Elisabetta Trenta– e la futura sotto-segretaria agli Esteri Manuela Del Re. Insomma se ci fu un luogo centrale dove nacque il governo giallo-rosso in salsa russa quello fu proprio la Link University.

Chi erano gli uomini di Mosca che Mifsud fece entrare in contatto con il futuro inner circle di Giuseppe Conte? Il primo è Ivan Timofeev, figura chiave del Russiagate, a cui secondo l’inchiesta FBI Mifsud si rivolge per creare il contatto con l’entourage di Trump come promesso a Papadopoulos, responsabile per la campagna presidenziale dei contatti con l’estero. Papadopoulos aveva una sua idea sull’ateneo romano, la definiva “l’università delle spie”. Il partito putiniano mette radici in Italia proprio nelle stanze che la Link affida a Mifsud. In quel locale dedicato all’università moscovita si trovava spesso anche un avvocato, ex-ufficiale dell’esercito russo in Sud America – Bolivia, Argentina, Colombia e Brasile – che il primo dicembre 2016 tenne alla Link una conferenza presentata da Mifsud e alla presenza di Scotti. L’intervento di Aleksey Aleksandrovich Klishin, questo il nome dell’ospite della Link, fu un classico dell’ideologia putiniana, contro l’UE e gli Stati Uniti dominatori dell’ordine unipolare. Tra i professori russi che avrebbero dovuto tenere lezioni agli studenti della Link c’erano anche Yury Sayamov, diplomatico e consigliere del Cremlino, il filosofo Alexander Chumakov, che ha elaborato la visione della globalizzazione adottata dal nuovo Zar. E Olga Zinovieva, vedova di Alexander Zinoviev uno degli ideologi dell’era putiniana.