Se ripercorriamo a ritroso il film del Quirinale, alcuni punti dell’intricata trama appaiono più scorrevoli, più lisci. Perfino scivolosi. Quando lo scorso dieci gennaio Conte diceva “ci vuole una donna sul Colle”, aveva già in mente il nome di Elisabetta Belloni? Stava già lavorando alla candidatura più avventurosa della storia repubblicana?
Tutto concorre a lasciarlo immaginare: in primis, la decisione del neodirettore del Dis nel giubilare Marco Mancini, dopo il caso dell’Autogrill – complice Report – in chiave anti-Renzi.

Con la sua nomina alla testa del Dis – in uscita dalla Farnesina, diventata terra di conquista grillina – aveva avvicendato quel generale Gennaro Vecchione che proprio Conte aveva prorogato per un secondo mandato di ulteriori due anni. Sembra quasi che la casella dei servizi segreti, autentica passione di Giuseppe Conte, gli sia rimasta in testa tanto da provare a farne il trampolino di lancio per una nuova spericolata operazione: mettere al vertice dello Stato la donna a cui Vecchione (del quale è notoria l’amicizia e la frequentazione personale con l’ex premier) aveva appena passato i dossier più scottanti. Tutti ricordano con quanta passione Conte abbia seguito da vicino le vicende Dis, arrivando a pretendere di arrogarsi i poteri di intelligence, in quanto primo ministro.

L’ipotesi che abbia iniziato a lavorare alla candidatura Belloni per il Colle è suffragata da una serie di coincidenze che, incrociate tra loro, restituiscono una combinazione singolarmente rispondente. Si rivedano anche i tweet con cui Di Maio parla della Belloni. “Elisabetta è mia sorella, alla Farnesina abbiamo lavorato insieme benissimo, occhio a non bruciarla”, aveva twittato Di Maio, per mettere nero su bianco i rapporti anche suoi, e magari anche stretti, con la dirigente del Dis che Conte stava utilizzando pro domo sua, rischiando appunto di bruciarla. Se riavvolgiamo ulteriormente il nastro, il 2 dicembre scorso un disegno di legge a firma dei senatori dem Zanda, Parrini e Bressa, propone di modificare gli articoli 85 e 88 della Costituzione per impedire il bis del presidente della Repubblica e abrogare anche il semestre bianco.

Un segnale preventivo, voluto da qualcuno per scoraggiare proprio il bis di Mattarella? L’iniziativa parlamentare è suonata singolare allo stesso leader del Pd Letta – per quell’intempestività che si traduce in inopportunità – che l’ha voluta far naufragare, con la cortese richiesta alla stampa di non parlarne più, “incidente chiuso” ancora prima di essere aperto. Passano quaranta giorni. Giuseppe Conte dice ai giornali di avere in mente una donna per il Quirinale. Domanda dei giornalisti: il nome? Risponde: i nomi si fanno a tempo debito. E così sarà. Per due volte, il martedì 25 e di nuovo il giovedì 27, ecco il nome di Elisabetta Belloni scodellato sul piatto. Lei non fa trapelare alcuna reazione, né la prima né la seconda volta. Quella in cui il Belloni- gate è ormai scoppiato. Matteo Renzi è una furia: “In nessun Paese occidentale il capo dei servizi segreti diventa Capo dello Stato”.

Anche tra i Dem il dibattito sul caso Belloni è serrato. Il deputato Enrico Borghi, membro del Copasir, ha annunciato una proposta di legge per chiudere le porte girevoli tra i servizi segreti e i palazzi istituzionali. Sulla stessa linea Italia Viva. La legge 124 del 2007 non pone alcuna incompatibilità con altre cariche per chi lascia i servizi, limitandosi a specificare che il personale di Dis, Aisi ed Aise «è tenuto, anche dopo la cessazione di tale attività, al rispetto del segreto su tutto ciò di cui sia venuto a conoscenza nell’esercizio o a causa delle proprie funzioni». È successo così in passato che direttori delle agenzie siano andati a ricoprire il ruolo politico di sottosegretario con delega all’Intelligence (Gianni De Gennaro per il premier Mario Monti e, ora, Franco Gabrielli per Mario Draghi); in entrambi i casi si tratta di Governi con un presidente “tecnico”. Altri ex direttori dei servizi si sono ricollocati in Fincantieri (Giampiero Massolo), Telecom Sparkle (Alessandro Pansa), Leonardo (Luciano Carta).

Mai si era adombrata la possibilità che uno 007 potesse diventare capo dello Stato. Così, tornando alla lunga nottata del niet, a quello dei centristi si è aggiunto quello di mezzo Pd, capitanato da Base RiformistaMarcucci, Romano, Borghi tra i contrarissimi – e arriva anche Leu, con il ministro Speranza, a dire che no, quella cosa lì loro proprio non la possono sostenere. In Egitto sì, si può fare. In Italia no. Il Riformista ha però messo le mani su una chat interna al gruppo Pd in cui un parlamentare lombardo incita a gran voce i suoi a votare Elisabetta Belloni, nel segreto dell’urna. «Sarà la prima volta di una donna al Quirinale», incoraggia i compagni. «I leader si sono parlati. La soluzione è che dobbiamo votare Elisabetta Belloni», illustra didascalico il deputato lombardo.

Di chat in chat, di telefonata in telefonata, il tam tam è diventato sempre più forte. Quando è arrivata alle orecchie di Grillo, si giustifica oggi il garante del Movimento, la candidatura di Elisabetta Belloni sembrava cosa fatta. Tanto che Grillo si espone con un tweet che rimarrà negli annali delle epic fail: “Benvenuta, Signora Italia. #ElisabettaBelloni”. Mentre Grillo twittava, informato evidentemente da Conte delle trattative in fase avanzata con Enrico Letta e Matteo Salvini, la Belloni finiva già in archivio. Proprio come accadde venti giorni prima, mentre Conte diceva “Belloni”, i parlamentari M5S dicevano “Mattarella Bis”. Chi ha costruito l’operazione Belloni è lo stesso che ha ingannato Beppe Grillo? Ne è convinto il senatore Presutto, pentastellato vicino a Di Maio: «Il tweet di Grillo su Belloni di venerdì sera? Una persona molto autorevole ha chiamato Grillo dicendogli che avevamo chiuso l’accordo e di fatto Grillo, che non era a Montecitorio, è stato ingannato. Mi dispiace perché ho un legame di affetto personale nei confronti del fondatore del Movimento 5 Stelle, ma è stato tratto in inganno».

Il disegno di Conte provoca uno scossone nel Movimento. Luigi Di Maio ha varcato il Rubicone: dopo il suo “ci sono stati errori di leadership” di domenica, ieri ha ulteriormente rintuzzato Conte: “Non provi a trovare diversivi”. “Scissione? Non si esclude niente”. Tra i fedelissimi del ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, è circolata l’ipotesi, eccome. La rottura tra l’ex leader del M5s e il nuovo presidente è fortissima, clamorosa. E mentre ci si chiede da che parte sta Grillo, e dove starà Casaleggio (Il Fatto si è già schierato con Conte) è partita una conta degli uni e degli altri, anche pubblica: si veda Twitter di ieri e l’appello dei dimaiani sarà fatto. In ordine alfabetico, sono passati sotto le insegne del ministro: Bacca, Battelli, Buompane, Castelli, Cosimo, Del Grosso, Di Sarno, Di Stefano, Faro, Fraccaro, Generoso, Iovino, Licatini, Manzo, Nesci, Presutto, Puglia, Sibilia.

Una ventina di nomi, tra cui anche figure di governo rilevanti, ma ancora una pattuglia di “happy few” troppo piccola rispetto al corpaccione pentastellato, per poter parlare di scissione. Sorprende però come – a proposito di cyberattacchi da spystory 2.0 – l’hashtag #DiMaioOut sia rapidamente asceso in rete, imponendosi nel dibattito pubblico in forza di uno strano movimento carsico. Solo 289 i profili di utenti che hanno scritto contro Di Maio, chiedendone la fuoriuscita dal M5s, ma con una forza centrifuga attribuibile solo all’utilizzo di particolari software di tweet bombing. Ne è convinto lo studioso Pietro Raffa: «I primi dieci account per numero di tweet sono fake, e generalmente sostengono le posizioni di Di Battista e di Conte», avverte. I due, in effetti, sono tornati sotto braccio l’uno con l’altro. Si vede che il clima sudamericano piace a entrambi.

Avatar photo

Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.