L’iniziativa lanciata dalle associazioni Adesso! e Tortuga, con il contributo scientifico di molti giuslavoristi ed economisti del lavoro milanesi, parte da un dato di realtà: a Milano il potere d’acquisto dei salari ha subìto una drastica riduzione a causa dell’aumento senza precedenti del costo della vita, con particolare riguardo alla componente riservata all’abitazione e all’acquisto di servizi primari. Gli effetti sono sotto gli occhi di tutti: imprese che faticano a trovare lavoratori, incremento del pendolarismo tra città e provincia, diffusione delle sacche di povertà, sono tra quelli più preoccupanti.

In questo panorama serviva uscire dalla narrazione impressionistica e, attraverso uno studio metodologicamente robusto, offrire un parametro economico di riferimento oggettivo utile a mettere in guardia dall’oltrepassare la linea rossa del lavoro povero. In una città con la storia sociale e i fondamentali economici di Milano, il lavoro non deve mai andare a braccetto con la povertà. Quindi l’ipotesi di un Living Wage alla milanese non solo è praticabile, ma è necessaria. La contrattazione territoriale è tradizionalmente poco diffusa nel nostro paese. Se le rappresentanze delle imprese non hanno mai gradito – in linea di principio – l’apertura di un livello di contrattazione intermedio tra quello nazionale e quello aziendale, nemmeno i sindacati si sono mai particolarmente scaldati per i contratti territoriali.

Ma ci sono importanti eccezioni.  In particolare nei settori del commercio, dell’artigianato e dell’agricoltura i contratti territoriali rappresentano lo strumento più efficace per integrare e adattare ai diversi contesti geografici quanto previsto dai contratti nazionali. Perciò poter disporre di un parametro economico fondato sulla reale incidenza del costo della vita potrebbe dare una mano alla contrattazione territoriale a dare una risposta più precisa ed efficace alla platea dei lavoratori e delle imprese dei territori. A Milano le retribuzioni sono già più alte di quelle della media italiana. Chiariamo questo dato di partenza. Quando, però, si ragiona attorno a una soglia minima, ci si preoccupa della parte più bassa del mercato del lavoro, che è anche quella maggiormente esposta agli aumenti di prezzo di alcuni beni primari.

Dunque è chiaro che retribuzioni e costo della vita devono essere trattati unitariamente se si vuole contrastare il rischio di scivolare sotto la soglia della povertà. Agire sul fronte dei costi è complesso, ma non impossibile. E la parte pubblica può fare la sua parte, ad esempio rilanciando l’edilizia convenzionata, rivedendo le politiche dei prezzi dei servizi pubblici, ma anche riducendo i costi indiretti della burocrazia. Le dinamiche di mercato delle retribuzioni sono e devono continuare ad essere presidiate dalla contrattazione collettiva. Solo così si può trovare il corretto punto di equilibrio tra ragioni delle imprese e diritto dei lavoratori ad una esistenza libera e dignitosa, come prevede la nostra Costituzione. Milano non fa eccezione ed è giusto che, laddove si produce maggiore ricchezza, ci sia una corrispondente redistribuzione sui salari. Questo è il compito delle parti sociali, perché il progresso di una comunità sociale non è mai quello di una sola delle sue componenti.

Il mercato del lavoro milanese è uno dei più aperti d’Italia e dei più vari per professionalità presenti. Ma la rapidissima trasformazione tecnologica e produttiva del tessuto imprenditoriale ha creato un fabbisogno di nuove competenze che fatica ad essere soddisfatto. Tutti abbiamo ben presenti le sfide delle nuove transizioni, a partire da quella verde e digitale, ma così si rischia di non sfruttare le opportunità di crescita dei nuovi mercati di beni e servizi e perdere terreno nella competizione con altri paesi. Perciò il migliore investimento che si possa fare per lo sviluppo della economia milanese è quello sulla formazione professionale e sulla riconversione delle competenze.

Maurizio Del Conte

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