«I ragazzi vivono nel loro mondo. I ragazzi vivono nel cellulare, non hanno visto niente, non sono curiosi di vedere niente, non girano, non escono, Mi è capitato di portare una classe a visitare dei palazzi storici di Milano e sentirmi dire da un 17enne che era la terza volta che metteva piede in città». Sergio Barbesta è professore di lunga esperienza, vissuta sempre in scuole della periferia milanese, dove lo scollamento con i cambiamenti, le prospettive della metropoli è spesso critico. Un osservatorio, il suo, dal quale si rileva però un problema forse più generazionale che di territorio.

«Dovremmo chiederci, qual è lo scopo della. Scuola. Io insegno e ho insegnato in istituti tecnici, che dovrebbero per loro natura avvicinare alla vita reale, invece stiamo parlando di pura utopia. Per capirci, nel momento in cui. arrivano, a scuola i computer nuovi, siamo già. Paleolitico. Fuori le tecnologie sono già cambiate. Pensare di seguire cambiamenti della società lascia il tempo che trova: la scuola non riuscirà mai a stare al tasso dei tempi, ma forse non deve provarci. Per capirci, la città produttiva ci dice dateci delle persone che sappiano scrivere in italiano corretto e sappiano far di conto. Al resto pensiamo noi».

Quindi lei mi sta dicendo sostanzialmente che forse è bene considerare la scuola non come un luogo che necessariamente per stare tecnicamente al passo con la metropoli che cambia, ma da magari gli strumenti educativi e culturali per poter per poter poi accedere al cambiamento.
«Esatto. E tornando al tema iniziale, tra città e periferia fa poca differenza. La periferia sono i ragazzi».

La città in sé, con le sue istituzioni, le sue espressioni Potrebbe invece fare il passo verso questi ragazzi? In qualche modo la società potrebbe andare lo incontro?
«Tenendo presente che l’educazione passa attraverso un rapporto personale. In questo senso la città è un’astrazione. Certamente è utile che le realtà cittadine entrino nelle scuole, con loro rappresentanti ed esperti che le raccontino, ma anche ad un’altra condizione, cioè che ci sia quello che noi chiamiamo il ritorno didattico. Vuol dire che anche l’incontro più interessante, più accattivante, ha senso e soprattutto utilità reale se ha un seguito nella didattica, se c’è poi un approfondimento che si protrae».

Nelle periferie, probabilmente il lavoro profondo è ancora più necessario.
«Sì, ma ci sono problemi anche più di base, come la lingua. C’è un’alta concentrazione di studenti stranieri. Molti non parlano l’italiano se lo fanno lo dismettono appena tornano in famiglia o nella loro piccola comunità».

Mario Alberto Marchi

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