Le proteste in Bielorussia
Minsk, violenze in piazza dopo le elezioni farsa: a Oriente e Occidente conviene salvare “l’ultimo dittatore d’Europa”

Quando Alexander Lukashenko divenne per la prima volta presidente della Bielorussia, Bill Clinton era da un anno e mezzo alla Casa Bianca, il cancelliere tedesco si chiamava Helmut Kohl e Silvio Berlusconi aveva appena iniziato il suo primo mandato a Palazzo Chigi.
Ventisei anni e sei elezioni dopo, “l’ultimo dittatore d’Europa” rivendica una vittoria plebiscitaria al voto di domenica scorsa. Il risultato, 80,2% per il capo e 9,9% per l’unica seria contendente, Svetlana Tikhanovskaya, è abbondantemente viziato da brogli, dicono gli oppositori. Difficile controllare: non sono stati ammessi osservatori indipendenti alle operazioni di spoglio, eseguite in segreto. Fatto sta che non appena chiuse le urne la gente è scesa in piazza a protestare. Sono seguìti scontri che hanno pochi precedenti nella storia del Paese.
La polizia ha attaccato i manifestanti usando pallottole di gomma, granate stordenti, lacrimogeni e cannoni ad acqua. Nella capitale Minsk una persona è morta investita da un automezzo delle forze dell’ordine. I feriti si contano a decine, così come gli arresti. Ci sono stati disordini in almeno altre venti città. Altre dimostrazioni di protesta stanno per scattare, con le stesse modalità di domenica, nel momento in cui scriviamo queste righe. Si potrebbe ritenere che il regime è arrivato al capolinea. Certamente è obsoleto. È una sorta di populismo sovietico-capitalista. Il servizio segreto mantiene il nome di Kgb, le strade quelli degli eroi del comunismo. Le maggiori aziende appartengono allo stato. Che è associato a Mosca in un’unione intergovernativa e sovranazionale. Il regime è da tempo superato dalla realtà sociale ed economica: la Bielorussia conta su un’effervescente imprenditoria nel settore tecnologico e ha il maggior numero per capita di visti per l’area Shengen. Necessita di un sistema politico più articolato, sensibile e reattivo.
Lukashenko, 65 anni, ha avuto un comportamento erratico in campagna elettorale. La promessa di un raddoppio dei redditi delle famiglie in cinque anni è apparsa a tutti una presa in giro. Per non parlare della disastrosa risposta alla pandemia: vodka, sauna e un giro in trattore la medicina proposta dal presidente. Altrettanto controproducente è sembrato l’allarme lanciato per un presunto complotto di Mosca contro di lui, con tanto di arresto di una trentina di mercenari russi – presumibilmente in casuale transito verso l’Africa. Nel frattempo, Svetlana Tikhanovskaya, 37 anni, è diventata estremamente popolare. Candidatasi al posto del marito arrestato per aver sfidato Lukhashenko, non aveva alcuna esperienza politica né un programma preciso. Ma per i suoi comizi ha radunato anche 60mila persone. Colpite dal coraggio della sua oratoria e da un messaggio preciso: può esistere un futuro senza “Batka” (papà) – nomignolo ingannevolmente affettuoso affibbiato dai bielorussi al loro autocrate. Molti osservatori ritengono che la sfacciataggine delle frodi elettorali e la violenza della repressione testimonino come il presidente si senta mancare il terreno sotto i piedi.
E si chiedono se i servizi di sicurezza e la élite continueranno a sostenerlo. In realtà, è probabile che lo facciano: i vertici degli apparati governativi devono troppo a un sistema senza il quale con ogni probabilità non durerebbero un minuto. E nel Paese mancano tycoon con un potere economico e mediatico in grado di proporsi come alternativa. Difficile che l’opposizione possa trovare le risorse e le alleanze necessarie a scacciare Lukhashenko. Che, tra l’altro, ha un indubbio supporto nelle zone rurali e tra le generazioni più anziane. In piazza stanno scendendo soprattutto i giovani delle città. Non sono però solo di politica interna i motivi di una probabile delusione delle aspettative di chi ritiene che in Bielorussia stia succedendo qualcosa di simile a quanto successe in Ucraina nel 2014, quando la rivoluzione di Maidan portò al cambiamento del regime. Sono anche e soprattutto motivi di politica internazionale: sia la Russia che l’Occidente hanno da dire quanto di peggio, su Lukashenko.
Ma in entrambi i casi prevale la percezione che una sua destituzione comporterebbe più perdite che profitti. «Con il precedente ucraino e la successiva annessione della Crimea da parte di Mosca come punti di riferimento, Washington e l’Europa considerano il presidente bielorusso come l’unica garanzia disponibile per la sovranità del Paese», nota l’analista Maxim Samorukov sul sito del think tank Carnegie. Ipotizzare un appoggio materiale a Thikanovskaya e a un movimento di opposizione organizzato potrebbe essere quindi un mero esercizio di “whishful thinking”. Dal canto suo, Mosca – nonostante le voci su rocambolesche manovre per destabilizzare un alleato sempre più mercuriale e problematico – mantiene come priorità quella di impedire che la Bielorussia si integri nel sistema occidentale.
E volenti o nolenti, l’unico vero ostacolo a una tendenza che nella società civile è già in atto è proprio Lukashenko. Senza contare la solidarietà tra leader autoritari, di cui Vladimir Putin può esser considerato un cultore. A proposito: il primo capo di Stato a congratularsi con Lukashenko per la rielezione è stato il presidente cinese Xi Jinping. Il messaggio di Putin è arrivato dopo. E non fa riferimento alla «alta autorità politica e alla fiducia della popolazione dimostrate», come quello inviato all’indomani delle presidenziali bielorusse del 2015. Piuttosto, il messaggio di Putin stavolta sembra un memorandum: chiede di riprendere l’integrazione nell’Unione intergovernativa con Mosca, di rafforzare i legami economici e militari. Intanto, in Russia uno dei maggiori quotidiani indipendenti, la Novaya Gazeta, scrive che «nella storia, chi vuol regnare all’infinito spesso lascia dietro di sé una scia di sangue». Nel Paese il cui presidente si è appena “azzerato” i mandati per poter restare in carica fino al 2036, il riferimento non è casuale.
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