La magistratura indaga sull’ennesimo suicidio
Mirko poteva salvarsi, ad ucciderlo è stato il carcere
Mirko aveva 27 anni. Nato e cresciuto ai Quartieri Spagnoli, aveva avuto un’infanzia difficile, la madre morta tragicamente e prematuramente, il padre detenuto. Appena maggiorenne era finito in carcere per rapina. Non è stata la prima volta: Mirko aveva precedenti per oltraggio a pubblico ufficiale e comportamenti aggressivi sempre contro le forze dell’ordine. Di recente gli erano costati il ritorno in cella. Mirko era stato recluso prima nel carcere di Catanzaro, dove la visita medica disposta dalla direzione aveva rilevato un disturbo della personalità, e poi, ad agosto scorso, nel carcere Pagliarelli di Palermo. Lì Mirko aveva provato a togliersi la vita ingerendo vetro: fu subito soccorso e operato d’urgenza. A quel punto fu deciso di fargli cambiare nuovamente carcere.
Il trasferimento questa volta lo aveva condotto a Benevento. La casa circondariale campana ha un’articolazione per i detenuti con problemi di salute mentale ma non può garantire un’assistenza fissa perché gli psichiatri lavorano su turni part time, tre volte alla settimana. Mirko, appena arrivato a Benevento, era stato messo in isolamento sanitario. Da quando c’è la pandemia funziona così per ogni nuovo detenuto che arriva in una struttura penitenziaria e Mirko, che era già al terzo trasferimento, lo sapeva bene. Doveva rimanerci, come da prassi, dieci giorni da solo nella cella. Ma questa volta da solo Mirko non ha resistito. Al terzo giorno di reclusione ha creato un cappio con il lenzuolo e si è lasciato andare. Quando l’agente della penitenziaria se ne è accorto era tardi. Domani sul corpo sarà eseguita l’autopsia. La famiglia di Mirko si farà assistere dall’avvocato Roberto Chignoli.
Il carcere di Benevento è un carcere dove ci sono cinque posti in articolazione psichiatrica, dove c’è una sezione per detenuti accusati di reati sessuali, c’è una sezione femminile e una di alta sicurezza. Non può definirsi un piccolo carcere, eppure il garante campano Samuele Ciambriello ha dovuto battere i pugni, la scorsa estate, per fare in modo che fossero inseriti nella pianta organica due tecnici della riabilitazione, seppure part-time. La guardia medica è sempre presente ma è ovvio che non può sopperire alla mancanza di un presidio fisso di assistenza per i detenuti con problemi di salute mentale. «Deve far riflettere – osserva Ciambriello – che i tre suicidi che ci sono stati nell’arco di poco più di un anno a Benevento non hanno riguardato detenuti che erano in cella da anni o che avevano una condanna di anni da scontare, ma detenuti arrivati da tre, cinque, dieci giorni». Deve far riflettere perché ogni detenuto dovrebbe, appena varcata la soglia di un carcere, avere un colloquio con un medico, con uno psicologo, con un educatore, ma se in tutte le carceri le risorse umane sono al minimo è facile immaginare che in qualche criticità si incorra.
«Risulta chiaro – spiega Ciambriello – che gli psichiatri vanno in questo carcere, come in tanti altri, alterandosi su turni, invece sarebbe necessario un presidio fisso di almeno due figure per ogni struttura penitenziaria: uno per l’articolazione di salute mentale e uno per tutti gli altri detenuti». Non vuol dire psichiatrizzare il carcere, ma intervenire in maniera mirata. «Se avessimo un boom di detenuti con l’epatite non avremmo bisogno di più psichiatri ma di più medici specializzati», aggiunge Ciambriello per spiegare il grande buco nero del sistema penitenziario.
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