Bene ha fatto la ministra Cartabia a chiedere all’Amministrazione penitenziaria un approfondimento sui 32 casi di suicidio registrati nelle carceri italiane in poco più di sette mesi. Le complessità delle storie di vita di chi è in carcere, e il carcere stesso come luogo di pena, e dunque di sofferenza e di dolore, non possono consentirci di assuefarci alla morte dietro quelle mura.

Molto è stato fatto in questi anni per la prevenzione del rischio suicidario, anche attraverso l’adozione di un piano nazionale adottato a livello regionale e locale. Eppure non tutto può essere previsto e non tutto può essere impedito. Per questo, in queste circostanze, non credo che sia utile andare alla ricerca delle responsabilità individuali, ammesso che ce ne siano, quanto piuttosto capire cosa non funzioni, oltre che nel “sistema”, anche nei singoli istituti, evitando però giudizi tanto generali quanto generici, sulla disumanità delle carceri italiane o di quelle di una regione in particolare, come si diceva ieri su queste pagine, peraltro accomunando ingiustificatamente quattordici istituti tra loro molto diversi. Lo dico da convinto abolizionista, convinto che si debba far a meno del carcere negli affari di giustizia, ma consapevole – come Garante dei detenuti – che qui e ora, di fronte alla tragedia di un suicidio in carcere non basti la denuncia, ma ci si debba chiedere cosa potrebbe essere fatto meglio per lasciare la speranza di una vita degna di essere vissuta a chi si trovi disperato, e spesso lucidamente disperato, in carcere.

Così, credo, si debba fare anche nel caso del grave lutto che ha colpito la comunità penitenziaria della casa di reclusione di Rebibbia il 31 luglio scorso: Luciano, detenuto di lungo corso, affetto da problemi psichiatrici seri, si è levato la vita, come già aveva tentato di fare anni fa e come aveva in altre occasioni ripetuto di voler fare. Non accettava la sua pena, la sua sofferenza o forse – semplicemente – il corso della sua vita. Naturalmente sono in corso le indagini della Procura sulle circostanze della morte, e la Asl sta ricostruendo l’assistenza che gli era prestata in questi anni nella sezione dei cd. “minorati psichici”, secondo la terminologia pre-basagliana ancora in uso nell’Amministrazione penitenziaria, ma – fughiamo subito il campo da equivoci ricorrenti – Luciano non è morto in attesa di un posto in una Residenza per le misure di sicurezza: riconosciuto semi-infermo di mente, aveva da fare ancora sette anni in carcere, prima di iniziare, se necessario, un percorso terapeutico in Rems.

Forse avrebbe potuto essere ammesso a un’alternativa terapeutica sul territorio, fuori dal circuito delle misure di sicurezza, secondo quanto stabilito dalla Corte costituzionale nella sentenza 99/2019, redatta dall’allora giudice costituzionale Marta Cartabia, ma non ho notizie che un’istanza in tal senso sia mai stata fatta ai giudici di sorveglianza. Luciano era perfettamente inserito nella comunità penitenziaria di Rebibbia: era assegnato a quella sezione, e lì partecipava al percorso di assistenza offerto dal servizio di salute mentale dell’Istituto; ma svolgeva attività anche al servizio degli altri, in particolare, negli ultimi tempi, come scrivano di reparto, redattore delle istanze dei detenuti alla autorità competenti, dalla direzione alla magistratura di sorveglianza.

Così decine di detenuti hanno inviato al sottoscritto, alla Garante comunale, al Garante nazionale, e poi al Tribunale di sorveglianza, alla Direzione del carcere, al Provveditorato, al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e alla ministra Cartabia un reclamo, in cui – sgomenti per la morte di Luciano – denunciano lo stato di trascuratezza in cui versa quell’Istituto, che pure fu fiore all’occhiello della riforma penitenziaria, della legge Gozzini e della illuminata gestione dell’Amministrazione penitenziaria da parte del compianto Nicolò Amato.

Sono stato a discuterne con loro, la scorsa settimana, nel giardino del carcere, che ricorda ancora i tempi migliori. C’è rabbia, comprensibilmente, per quella morte, ma soprattutto c’è ansia e richiesta di una svolta, che torni a fare del carcere, e di quel carcere in particolare, un momento di un percorso di reinserimento sociale, e non solo il luogo del loro contenimento e della dissipazione della loro vita. Questo, credo, è l’impegno più importante che i suoi compagni chiedono a tutti noi, destinatari del reclamo in memoria di Luciano e sono convinto che anche la Direzione del carcere e il Provveditorato regionale, come gli operatori che mi hanno accompagnato nella visita, siano disposti a mettersi in gioco e a ridare un senso a quella casa di reclusione e alle pene che vi si scontano.