Strage senza fine in cella
Il dramma di Mirko, suicida in cella a soli 27 anni
Un cappio intorno al collo. Così Mirko, napoletano di 27 anni, ha scelto di farla finita in carcere. Era arrivato sabato scorso nel penitenziario di Benevento, dopo essere stato nel carcere di Palermo e prima ancora in vari altri istituti di pena. Lunedì pomeriggio si è impiccato e ora sulla sua morte c’è un’inchiesta in atto. La Procura di Benevento ha aperto un fascicolo, sul corpo del detenuto sarà eseguita l’autopsia. È la prassi in casi come questo. Nel carcere di Benevento si tratta del secondo suicidio dall’inizio dell’anno, in tutta la Campania siamo già a sette detenuti morti suicidi in cella, in tutta Italia 39. In pratica, più di un detenuto morto suicida ogni settimana. Una strage silenziosa.
A chi importa delle morti in cella? Chi si indigna veramente? E chi, oltre a indignarsi veramente, si impegna a fare qualcosa per fermare questa strage silenziosa? A eccezione dei garanti e di qualche associazione a tutela dei diritti dei reclusi, i più tacciono. Come se l’argomento carcere e la vita di chi ci vive e ci lavora all’interno (perché, attenzione, i numeri sono drammatici da qualunque prospettiva lo si guardi il mondo del carcere) non fosse un argomento di interesse della collettività. La storia di Mirko, inoltre, solleva anche un’altra questione, quella legata al trattamento dei detenuti con problemi di salute mentale. Perché se è vero che ci sono troppi suicidi in carcere (si stanno raggiungendo le cifre del 2020, l’annus horribilis della pandemia, in cui il tasso dei suicidi è stato fra i più alti degli ultimi venti anni), è altrettanto vero che molti dei suicidi si verificano tra i reclusi con problemi psichici.
«Contrariamente alle altre volte, non intendo interrogarmi sulle cause che hanno indotto il giovane detenuto, con problemi psichici, a compiere il gesto estremo – afferma il garante campano dei detenuti, Samuele Ciambriello – Non intendo farlo né per sfuggire alla disamina attenta e approfondita del dato né per trattare la triste notizia con superficialità, ma semplicemente perché la risposta è ben nota a tutti coloro che sono responsabili di questo ulteriore tragico evento». Il garante si rivolge quindi a chi amministra il mondo penitenziario: «Solo ed esclusivamente alle istituzioni ai vari livelli, da quello sanitario all’amministrazione penitenziaria, dalla magistratura ai Dipartimenti di salute mentale. La politica finta e pavida». Il suo è un monito, una richiesta di aiuto, una denuncia. «Che la retorica lasci spazio ai facta concludentia – dice Ciambriello – In presenza di soggetti affetti da problemi psichici, bisogna garantire una cura presso strutture alternative laddove possibile, e diversamente, se obbligati a rimanere in carcere, bisogna fare in modo che vengano seguiti e monitorati da figure professionali ad hoc e a tempo pieno. Mi riferisco a psichiatri, tecnici della riabilitazione, psicologi, assistenti sociali. A Benevento e in tantissimi penitenziari della Campania non è così».
Il garante lo sottolinea da tempo: mancano, nelle nostre carceri, figure professionali specializzate e spesso accade che gli agenti della penitenziaria o i volontari debbano fare anche da psicologi e assistenti sociali pur non avendone le competenze. Tutto questo genera tensioni e conflitti, produce drammi, causa tragedie. Come quelle dei suicidi in cella. Morti silenziose che gridano tutto il dramma della vita dietro le sbarre. Una vita che non vale a rieducare e riabilitare e che si trasforma molto spesso in un inferno. Lo attestano i dati non solo relativi ai suicidi, ma più in generale gli atti di autolesionismo, sempre più numerosi fra le mura del carcere. Le statistiche del 2021 si avvicinano preoccupantemente a quelle del 2020, quando si sono contati, complessivamente nelle 15 strutture penitenziarie campane, 1.232 eventi critici (furono 1.175 nel 2019). Una lenta strage.
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