Samantha, Roberto e il piccolo Davide, un minuscolo nucleo familiare tramortito non dal carcere in sé ma dalla palese illegalità della sua amministrazione, lontana anni luce da quanto previsto dalla Costituzione, dalla legge sull’ordinamento penitenziario e dal suo regolamento di attuazione.

Roberto entra alle Vallette di Torino il 10 settembre 2020. È in precarie condizioni di salute perché affetto da epilessia, cardiopatia ed enfisema polmonare. Samantha, la sua compagna, lo vede deperire sotto i suoi occhi ed è molto preoccupata per via della diffusione del Covid nelle carceri. Per la prima volta si trova a dover affrontare la realtà “durissima e grigia” del carcere. «Ho sempre visto questo mondo – mi confida – con gli occhi di chi colpevolizza i detenuti pensando che l’aver commesso un reato implichi il pagare con il prezzo della sofferenza la violazione del patto con la società». «Mi sono dovuta ricredere – commenta Samantha – perché l’istituzione penitenziaria non si limita alla privazione della libertà, che è già un’afflizione immensa, ma nega diritti fondamentali come quello alla salute».

Racconta la donna che tutte le richieste di visite e controlli per le patologie del suo compagno venivano sistematicamente respinte nonostante le patologie incompatibili e rischiosissime in caso di contrazione del nuovo virus. Roberto perde così 35 chili di peso ma dal carcere rispondono che “è tutto sotto controllo”. Samantha, che è una ragazza sveglia, coinvolge i difensori che cominciano a presentare istanze per far visitare Roberto da un medico esterno; passano cinque mesi e finalmente, a febbraio di quest’anno, il medico esterno può visitarlo e presentare una relazione con richiesta di esami diagnostici e visite specialistiche, le quali però vengono prese in considerazione dalla sanità penitenziaria solo nel mese di giugno. Siamo ad agosto, la famiglia non viene aggiornata e la sensazione più che fondata è che il “generale agosto” complichi ancor di più una situazione divenuta disperante.

Ma ora facciamo un breve passo indietro nel tempo. Già, perché c’è un altro importante protagonista che tiene unito il nucleo familiare: il piccolo Davide, che ha cinque anni e vuole vedere di persona suo padre e certo non gli bastano le videochiamate mensili. «Mio figlio – racconta Samantha – mi ha così conosciuta come Mamma Pagliaccio perché, con la ripresa dei colloqui in presenza, mi sono dovuta inventare di tutto per distrarlo dall’enorme ammasso di ferro e cemento che contiene e detiene il suo papà». Le istituzioni non si fanno scrupolo di rendere meno traumatizzanti quegli incontri che per disposizione della Asl si svolgono ancora in salette chiuse con il vetro divisorio nonostante il Green pass dei genitori e sebbene una circolare del Dap chieda espressamente l’apertura delle “aree verdi” delle carceri per incontri più sereni con i minori.

Per farvi comprendere quanto arrivi a essere perversa l’istituzione penitenziaria nella sua realtà quotidiana, vengo ora all’epilogo di questa storia. Ieri Roberto si è visto accogliere l’istanza di avvicinamento alla famiglia che aveva presentato per essere più vicino a suo figlio Davide che a sua volta ha problemi di salute. Accade però che Roberto viene trasferito in un carcere dove i colloqui con i familiari sono arbitrariamente ridotti da sei a due ogni mese e dove i minori sotto i 14 anni non possono fare ingresso. Completamente cancellati l’art. 28 dell’Ordinamento Penitenziario che stabilisce che “particolare cura è dedicata a mantenere, migliorare o ristabilire le relazioni dei detenuti e degli internati con le famiglie”, e l’art. 18 che, proprio riguardo ai colloqui recita che “particolare cura è dedicata ai colloqui con i minori di anni quattordici”.

Quanto a come viene gestita la sanità nel carcere di Torino, dopo aver visitato l’istituto (il 2 agosto scorso) insieme all’Associazione Marco Pannella di Torino, abbiamo scritto al presidente della Regione Alberto Cirio e all’Assessore alla Sanità Luigi Icardi chiedendo conto delle inaudite disfunzioni che ledono il diritto alla salute di tutta la popolazione detenuta. Credo però che l’unica strada da percorrere sia quella della denuncia penale non tanto e non solo all’Autorità giudiziaria italiana che maneggia il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale a sua discrezione quando è lo Stato a violare le sue stesse leggi, ma soprattutto alle corti superiori, a partire dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.