Il sovraffollamento carcerario è senza dubbio il primo male del nostro sistema punitivo. Anzitutto è l’ostacolo maggiore alla realizzazione della finalità rieducativa: risocializzare i detenuti – nel modo paradossale in cui il carcere ambisce a farlo, ossia separando le persone dalla società – è un affare faticoso, che richiede mezzi e competenze in grado di riempire di opportunità di autopromozione il tempo vuoto della detenzione. Nessun sistema espiativo, però, può permettersi un obiettivo così ambizioso coi nostri tassi di carcerazione; figuriamoci un paese come il nostro, in cui le risorse assegnate al sistema penitenziario fisiologicamente scarseggiano. Inoltre, i numeri elevati rendono pressoché impossibile far fronte alle problematiche che le persone recluse portano con sé in carcere o sviluppano durante la detenzione, come dimostra la quantità dei reclami per detenzioni irrispettose dei diritti che vedono riconosciute le ragioni dei reclusi.

Fa riflettere il dato che ci pone l’ultima relazione al Parlamento del Garante nazionale dei diritti dei detenuti Mauro Palma: negli ultimi anni, è vero, sono cresciuti i numeri delle misure alternative, ma al loro aumento non ha corrisposto un minor ricorso alla pena detentiva: quelle misure si sono semplicemente aggiunte ad una carcerazione che, da par suo, continua sempre a crescere. Eppure, dalle statistiche apprendiamo che a marzo 2023 circa il 20% dei detenuti è entrato in carcere in esecuzione di pene non superiori a tre anni, per le quali le alternative al carcere in astratto sarebbero molte. Nell’attesa di conoscere quanto spazio riusciranno a sottrarre al carcere le nuove pene sostitutive (e senza farsi soverchie illusioni), viene da chiedersi però perché mai le tradizionali misure penali esterne non riescano a farsi strada come autentica alternativa alla pena carceraria. La risposta (piuttosto ovvia) ha a che fare con le caratteristiche tipiche delle persone che affollano i nostri istituti penitenziari: soggetti presuntivamente pericolosi e persone socialmente marginali, che restano fuori dal raggio operativo delle misure alternative, per ostacoli giuridici o di fatto.

Il tema era stato oggetto di riflessione nel corso degli Stati generali dell’esecuzione penale, ed era diventato poi il cuore della riforma penitenziaria studiata dalle Commissioni nominate dal ministro Orlando. Purtroppo, quando gli schemi varati dal governo, mutata la legislatura, incontrarono l’ostilità delle nuove Camere, l’amputazione di quella parte divenne la condizione per la loro approvazione. In quei testi normativi, lasciati ad impolverarsi nei cassetti ministeriali, i correttivi a questa situazione c’erano già. Oggi andrebbe fatto quello che il legislatore del 2018 ha rinunciato a fare: ridefinire con ragionevolezza il reticolo delle norme che si sono stratificate in decenni di interventi, e che costringono ad una espiazione esclusivamente intramuraria una platea – ingiustificatamente vasta – di detenuti considerati, in via presuntiva, “socialmente irrecuperabili” per tipo di reato o di autore. Nel progetto della riforma, per esempio, l’area operativa dell’art. 4-bis o.p. era stata accuratamente ridefinita per eliminare (e non per aumentare, com’è avvenuto nel recente d.l. 162/2022 che ha ulteriormente dilatato, attraendovi reati “connessi”); erano stati eliminati gli automatismi legati alle revoche delle misure (art. 58-quater o.p.), causa frequente delle inutili detenzioni brevi di cui si è detto; venivano rimossi degli ultimi dannosi residui della legge ex Cirielli.

Quanto poi agli ostacoli “di fatto”, l’impraticabilità di misure extramurarie solo per la mancanza di un’abitazione adeguata trovava un correttivo nella possibilità di accesso a luoghi di dimora sociale destinati all’esecuzione penale (artt. 47 comma 3-bis e 47-ter comma 5 bis o.p.), soluzione ispirata alle “case territoriale di reinserimento sociale” immaginate da Alessandro Margara (ora ripresa dalla p.d.l. n. 1064 del 30 marzo 2023, che però riserva lo strumento all’espiazione delle pene detentive entro i 12 mesi, e lo affida assai opinabilmente ai direttori di istituto); l’affidamento in prova per le persone con disagio psichico – altra innovazione restata nell’utero legislativo – oggi potrebbe scongiurare la intollerabile detenzione nei “repartini” sanitari, anche nei casi in cui la detenzione domiciliare “umanitaria” (resa applicabile dalla sentenza costituzionale n. 99 del 2019) non sia praticabile in concreto, per inadeguatezza rispetto al bisogno di cura o all’esigenza di tutela della collettività.
Non sarebbe tutto, ma sarebbe molto. Il rischio è da un lato tornare in zona Torreggiani, e dall’altro rassegnarsi a tradire l’art. 27 Cost., il cui mandato non richiede di costruire nuove carceri, ma impone certamente di offrire qualcosa al posto del carcere.

Pasquale Bronzo, professore associato di procedura penale

Pasquale Bronzo

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